14 gennaio 1974
Nella camera dei bambini del primo atto ci sono “le cose” che appartenevano all’infanzia di Liubov e Gaiev. Le battute di Liubov non lasciano dubbio in proposito. L’indicazione di Čechov è: la camera che è “ancora” chiamata la camera dei bambini. E in quell’“ancora” è racchiuso, con estrema densità, il senso che probabilmente Čechov voleva dare a tutto l’ambiente-scena-racconto-situazione.
La chiamano “ancora” dei bambini, quella stanza, ma non è più dei bambini, perché “bambini” non ce ne sono: l’ultimo è morto cinque anni prima ed era il bambino di Liubov. Ania ha “la sua stanza”, anche se è ancora quasi bambina, ma l’infanzia vera e propria è finita in quella stanza, appartiene al passato. In realtà la stanza era solo quella dei bambini Gaiev e Liubov.
Così credo sia necessario individuare alcune “cose” tipiche rimaste: cioè plausibili, ma che abbiano la stessa risonanza della “didascalia”. Infatti, se noi osserviamo le “scene” delle diverse edizioni del Giardino, da quella del 1904 all’ultima di Visconti, tra le quali c’è anche quella di Giorgio Strehler, in tutti i paesi, compresa la Cecoslovacchia, che sembra abbia oggi un poco il monopolio della “riscoperta” di un Čechov “diverso” da Stanislavskij, ci accorgiamo che, se non lo si dice, nessuno può capire che quella “era” ed “è”, nonostante tutto, la camera dei bambini.
Si vede una “stanza” qualsiasi, più o meno ben fatta, più o meno realistica o semplicizzata, ma il sentimento plastico dell’infanzia non c’è. È probabile che la stanza sia stata usata, nel tempo, dopo i bambini, come camera di passaggio. Infatti i personaggi passano, entrano quasi per caso nella stanza. Liubov dorme altrove, Gaiev anche, Ania pure.
La stanza non serve più. E può essere una specie di vasta anticamera spoglia, ma che porta la traccia dei bambini di un tempo. Qualche mobile rimasto immobile, mentre i bambini sono diventati vecchi. Due banchi di scuola, piccoli, dipinti di bianco. Là, i “bambini”, fratello e sorella, facevano i compiti, un tavolino laccato, nano, e qualche seggiolina e due poltroncine per un salottino “da gioco”. Uno scaffale con la lanterna magica a petrolio e qualche giocattolo restato lì, per caso. E un servizio per giocare alla cucina o al “pranzo” di Liubov. Una piccola bilancina di latta per “giocare al commercio”, la credenzina con i cassettini per le spezie e un servizio da caffè e tè, minuscolo. Ma c’è anche un divanone per grandi. E c’è un armadio-mamma, da un lato, grandissimo, bianco, a specchio dentro, semplice, ma misterioso.
Gaiev e Liubov ritroveranno, a poco a poco, la loro infanzia perduta non “soltanto” guardando il giardino nell’alba. Ma vivendo tra i fantasmi rimasti di un’infanzia sepolta. Finiranno anche per sedere nei banchi, a malapena, rannicchiati, e parlarsi così. Gaiev si sporcherà le dita d’inchiostro come una volta e Liubov peserà lo zucchero con la bilancina e verserà un po’ di tè o caffè nelle tazzine e giocherà con se stessa e con Gaiev, servendo tutto su una guantierina di latta dipinta. Siederanno anche intorno al tavolino nano, per un gioco impossibile che culminerà con lo spalancarsi dell’armadio che incautamente Gaiev avrà battuto e poi aperto girando la chiave, nel suo sermone sul passato.
Perché dentro l’armadio c’è troppa roba stipata, alla rinfusa, che precipiterà in scena come una tenera e lancinante valanga, con polvere e strass e piume e cappelli e veli e nastri e scarpe e scatole e marinarette blu e tanto tanto altro, scatole con palle di natale che rotolano e poi si rompono, carte e lettere e infine la carrozzina cromata di tela cerata nera, come una piccola bara che correrà da destra a sinistra sull’avanscena, per poi investire Liubov, ignara ancora che si trova la carrozzina del suo bambino, addosso.
E allora, là, Liubov piangerà in silenzio. E la stanza apparirà allora come una specie di cimitero del tempo in cui invano Varia e anche Liubov e Gaiev poi, durante una parte della scena, tenteranno di mettere ordine. Senza riuscirci. Forse finiranno per sedersi per terra sui vecchi vestiti, cappotti e una coperta di pelo, una volta bellissima, ora smunta, ma ancora morbida da accarezzare e farvisi su dentro. E Ania si addormenterà così, o in mezzo a tanto passato, anche lei a terra, dolcemente, o su un banco piccolo di scuola, senza accorgersi quasi, e si farà portar via così, mentre la luce invade quel terribile e dolce vuoto.
15 gennaio
Il primo atto: la camera dei bambini, i mobili da bambini, i banchi di scuola, dove Gaiev e Liubov hanno fatto i compiti, e il grande armadio-mamma-memoria, pieno di tutta una vita, o tante vite. La carrozzina nera, di tela cerata e cromata, del bambino morto, che rotola fuori per prima quando Gaiev nella sua predica batte l’armadio con le mani e ne apre le ante. Dall’armadio esce la carrozzina che, traballando, rotola e si ferma dalla parte opposta, vicino a Liubov, e scendono, precipitano fuori, valanghe di cose, scarpe, un abito da marinaretto con cappello coi nastri, e impermeabili, e mantelli, e sacchi, e libri, e fogli di carta, e cappelli, e tanto altro: il cimitero delle vite che passano.
Nel secondo atto: un fondale, lontano, e il trenino-giocattolo che percorre il fondale da una parte all’altra, poi esce in quinta e rientra alla ribalta, rientra in quinta e riappare nel fondale, con piccole luci e vagoni di latta e la carica meccanica, e traballa a metà tra giocattolo e memoria anche lui, e finzione. Quando passa nel fondo, quasi invisibile, tra le montagne del fondale meravigliosamente dipinte, o la pianura meravigliosamente dipinta. I protagonisti giocano e non giocano ancora con l’oggetto dell’infanzia, in un vuoto ove le parole risuonano… Sull’avanscena, il mistero di quel giardino che non c’è e scende fino in platea. Un sipario di luce attraverso il quale si vede tutto lo spettacolo.
Un’atmosfera luminosa, mobile, impalpabile; e nello stesso tempo quasi densa, di polvere e sole e luna e vento, che muta e diventa notturna, e alba, che diventa ora lirica, ora tragica e cupa. Se un telo grande e semplice scendesse dal palco giù nella platea, come steso su un terreno morbido, un ondeggiare di colline (forse il monte verde e scuro dei Giganti), portato davanti e fin giù…
21 gennaio
L’idea di Čechov di far svolgere il primo e l’ultimo atto del Giardino nella “camera dei bambini” non è casuale. Né lo è l’armadio, in quella stanza. È strano che nessuno abbia mai dato l’importanza che merita a questa evidente figura-simbolo: l’armadio di cent’anni. A mio avviso l’idea dell’armadio, oggetto reale e plastico, e simbolo appunto, integra perfettamente l’idea della “camera dei bambini”, e cioè dei giochi di una età ormai favolosa per i “vecchi”. Proietta nella camera dei bambini (oggetti, cose) un altro oggetto-cosa che prolunga il tempo della stanza. Cioè, nella stanza dei bambini ci sono dei vecchi, e nella stanza c’è anche una cosa ancora più vecchia, che rimanda ancora più indietro, ancora più indietro di Firs, che è il più vecchio.
L’armadio è qualcosa di intermedio fra la gente che agisce e il giardino, vero e presupposto o simbolico, che è antichissimo. Il gioco del tempo viene così potenziato dall’armadio e ancora non è un caso che Gaiev faccia quel lungo discorso proprio all’armadio. I due termini, insomma, sono in una posizione plastico-dialettica di enorme efficacia, purché di questo armadio si riesca a fare qualcosa di più di una presenza relativa.
Non dimentichiamo che Čechov, ad esempio, dice in didascalia: «Varia apre l’armadio, che scricchiola».
Čechov non scrive mai una didascalia a caso. Qui c’è dunque un’indicazione comica, di una cosa “antica”, penosa, che fa fatica, che evoca il senso del tempo, e tanto altro.
Dagli appunti di regia, pubblicati nel programma di sala e, con tagli, in Giorgio Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli, 1974; ripubblicati, in seguito, nell’edizione BUR de Il giardino dei ciliegi, a cura Luigi Lunari, 1975