Rappresentare Čechov significa fare un bel falò di tutti i canovacci e di tutte le convenzioni teatrali e andare a cercare, nel profondo, la verità del fluire misterioso della vita. La teatralità di Čechov è nella sua antiteatralità.
L’avvicinamento di Giorgio Strehler al teatro di Anton Čechov avviene attraverso un percorso graduale, testimoniato da quattro diversi spettacoli.
Il gabbiano, rappresentato nel 1948, all’inizio della seconda stagione del Piccolo, fu in primo luogo motivato – come già era stato per L’albergo dei poveri di Gor’kij dell’anno precedente – dall’intento di studiare e applicare le tecniche di Stanislavskij. Con Platonov e altri (1959), il regista lavora invece sulla drammaturgia della commedia giovanile di Čechov, organizzando un materiale incompiuto e tanto complesso in tre diverse – e intrecciate – linee portanti: l’umorismo, la disperazione e il fallimento. Nel 1955 si accosta per la prima volta a Il giardino dei ciliegi ma, in verità, sarà la seconda edizione (1974) a realizzare quanto abbozzato diciannove anni prima – «Mancava la grande proiezione nell’infinito dei destini umani» – e a costituire, inoltre, la summa delle esperienze condotte nei decenni precedenti.
In questo percorso cechoviano si può cogliere, riassunta, l’evoluzione e la definizione dell’idea di regia di Strehler: dall’iniziale impostazione naturalistica, fino a giungere a quel “realismo poetico” che sarebbe diventato la cifra della sua maturità artistica.
Oggi Čechov è un autore col quale un uomo di teatro, se vuole essere completo, deve fare i conti. Perché rappresentare Čechov significa fare un bel falò di tutti i canovacci e di tutte le convenzioni teatrali e andare a cercare, nel profondo, la verità del fluire misterioso della vita. In un tempo nel quale “non succede mai nulla”, eppure non un attimo assomiglia all’attimo precedente. La teatralità di Čechov è nella sua antiteatralità: tranquillamente, possiamo dire “quasi una rivoluzione”. Teatro di verità; altro che teatro della crisi di un’intellighenzia, quella russa della fine Ottocento, logorata dalla riflessione, come si diceva da noi tra le due guerre. Anche Čechov “nostro contemporaneo”.
[…] Čechov per me non è stato né un incontro fortuito né un diversivo. Tanto meno un alibi. […] Ci sono alcuni grandi testi di teatro nei quali, periodicamente, l’umanità è chiamata a riconoscersi. Lo è Il giardino dei ciliegi, con la sua luminosità fredda, il sentimento doloroso del tempo che passa, la malinconia delle cose perdute. Davanti ai miei spettacoli cechoviani la critica è stata attenta, e io gliene sono grato, alle tecniche di scena con cui ho inteso caricare gesti, oggetti e silenzi di significati che non franassero pesantemente nella rappresentazione simbolica, trattenere i discorsi e le situazioni alle soglie dell’inespresso. Ma bisogna sapere che Il gabbiano, Platonov, Il giardino dei ciliegi sono stati ben altro, per me, che momenti di una ricerca di stile. O di una riflessione metafisica, fredda, sul senso della vita umana. Il migliore elogio che io abbia ricevuto per il mio lavoro su Čechov è di quei critici i quali si erano resi conto che avevo cercato di dare appuntamento alla poesia di Čechov all’incrocio dei due piani, quello del vissuto di ogni giorno e quello della fantasia costruita con la memoria. Operazione difficilissima, equilibrio delicato fra la cosa e la sua essenza, tra l’aneddoto e il suo significato. E nel Giardino dei ciliegi le difficoltà cominciano proprio dalla rappresentazione di quel giardino: troppo allusivo per essere risolto con una scenografia naturalista, e troppo “reale” per diventare astrazione scenica. Come rendere quell’“atmosfera di parole” che, secondo l’onesta definizione del vecchio Pitoëff, è la vera realtà di Čechov? Quel velo-giardino che ho chiesto allo scenografo Damiani, quel velo che è insieme spazio e tempo, cielo e foglie e stagione, ho cercato che fosse qualcosa di più di un segno stilistico. E così mi è parso naturale ingigantire l’indicazione che è nella didascalia di Čechov – la camera che è ancora chiamata dei bambini – riempiendo la stanza del ritorno di mobili minuscoli, di due piccoli banchi di scuola dipinti di bianco, di un salottino da gioco, di quel trenino di latta e di qualche giocattolo che ancora incantano Liubov e Gaiev. E di quell’armadio grandissimo, semplice e misterioso che contiene tutto il passato. Affinché si sentisse meglio che quella camera non è più «la camera dei bambini». Che il tempo è passato. Che il “tempo teatrale” del Giardino dei ciliegi è il tempo reale del passato di ogni uomo.
Io Strehler. Conversazioni con Ugo Ronfani, Milano, Rusconi, 1986
Il gabbiano, il mio primo Čechov. «Perché vestite sempre di nero?». La prima battuta del Gabbiano l’ho qui, nel cuore, sempre. È una battuta perfetta per quello che viene dopo; non so, ha un fascino per me intatto. Maša era Giovanna Galletti. Un valzer desolato di un solo pianoforte, ancora di Fiorenzo Carpi: pioveva da lontano, con una malinconia profonda e levità. Fu uno spettacolo che amai molto e che molto poi ho odiato, perché così lontano da quello che doveva essere. Ma quali interpreti eccezionali ebbi la ventura di dirigere allora: Anna Proclemer-Nina, De Lullo-Trepliov, Feliciani-Dorn, Battistella-Sorin, Bonucci-Medvedenko, Santuccio-Trigorin, Lilla Brignone-Arkadina. Questo era il vecchio teatro italiano, quello che giovanotti indegni hanno rinnegato con atti sconci, parole e spettacoli indegni. Un teatro all’italiana, certo rinnovato, che stava cambiandosi proprio tra noi, con noi e per noi, ma che portava con sé un’aura di professionalità, di serietà, di responsabilità e di “bravura”, bravura vera, non manipolata dai mass-media, ma conquistata, duramente, sulla scena con molti anni di oscura fatica.
La Nascita, l’Infanzia, l’Adolescenza, in Il lavoro teatrale. 40 anni di Piccolo Teatro, Milano, Piccolo Teatro di Milano/Teatro d’Europa – Vallardi & Associati, 1987
È dall’uomo-Čechov che occorre partire e all’uomo-Čechov occorrerà arrivare, al termine di queste giornate in cui ci troveremo affratellati.
È quindi con emozione che, nell’aprire questo convegno e nel salutarvi con tutto il mio calore, mi appresto a dare il mio contributo – di uomo di teatro – di uomo.
«Davanti a una folla sinistra e grigia di impotenti è passato un uomo, un grande uomo che capiva e al quale nulla era indifferente. Con un sorriso triste, dolcemente, ma con accento di profondo rimprovero, ha detto agli abitanti della sua terra: “Voi vivete male, signori!”…».
Sono parole dai Ricordi di Maksim Gor’kij che, mi sembra, possono sintetizzare il poeta e l’uomo Čechov. Per un uomo di teatro, però, di fronte a qualsiasi poeta di ieri – e anche di oggi! – si pongono due fondamentali interrogativi:
Perché? – Come?
Perché rappresentarlo – come rappresentarlo.
Se negli anni Trenta e Quaranta nominavi Čechov ai santoni della finanza e dell’amministrazione teatrale di allora, era un coro: «Non fa una lira!». Ma c’è di più! Lo stesso Stanislavskij, in La mia vita nell’arte, non si perita di dire: «Le opere di Čechov non rivelano immediatamente tutta la loro importanza poetica. Leggendole viene da dire: “Bene, ma… niente di speciale, niente di sbalorditivo, tutto come dev’essere – noto – verosimile, non nuovo”… Il primo approccio è persino deludente. Le sue opere non si possono raccontare. La trama, il soggetto? Si possono esporre in due parole. Le parti? Buone, ma non “vantaggiose”; sembrano piccole parti “senza filo”, come “scucite” – se non vi ricerchi un legame interno che ti porta, dal ricordo di un passo singolo, a ricordarne altri e infine a ritrovarti dentro l’intera opera… Allora ti rendi conto che nonostante le “banalità” che Čechov sembra rappresentare, parla sempre attraverso un suo leitmotiv spirituale – non del casuale, non del particolare, ma dell’Umano scritto con lettera maiuscola…»
Nella mia carriera di regista, il mio incontro con Čechov è costituito da quattro momenti, che considero tutti fondamentali. La prima occasione nasce nella stagione 1948-49 del Piccolo Teatro, con Il gabbiano. La seconda risale al 1955-56, con il mio primo Giardino dei ciliegi – in una stagione che, per me, è stata forse una delle più dense. Nel giro di pochi mesi, infatti, misi in scena La trilogia della villeggiatura di Carlo Goldoni, La casa di Bernarda Alba di Federico García Lorca e, da non dimenticare, quel Dal tuo al mio di Giovanni Verga che ben s’inseriva in un discorso comparato sull’analisi di una borghesia e di una “civiltà” europea. Accanto a questi spettacoli, come dicevo, il mio primo Giardino. Dall’Italia alla vigilia della Rivoluzione Francese alla Spagna feudale – da un’altra Italia, quella che si avviava a un’altra, possibile, “rivoluzione” in cui i germi del socialismo lottavano contro il rigetto che a esso opponeva la società umbertina – e, nella fattispecie, quella latifondistica siciliana – alla Russia cechoviana. Un momento, quindi, particolarmente importante in quella che, allora, ieri, oggi, sempre, è stata la mia analisi degli ascendenti della società europea di oggi. Il terzo momento cade nella stagione 1960-61, con la messinscena del Platonov – un momento in cui l’analisi s’era da tempo corroborata attraverso l’esperienza dialettica del teatro di Brecht. Per finire con il secondo appuntamento con il Giardino – che risale alla primavera del 1974. Ma devo dire che, oggi, tornando indietro nel tempo, non trovo risposta più adatta al “perché Čechov?” di quella che avevo abbozzato al primo impatto, alla vigilia del Gabbiano.
Dicevo, allora: «Non vorremmo tracciare un’introduzione a Čechov né presentare criticamente il suo teatro. Per questo crediamo sia sufficiente, sera per sera, la nostra opera, tra l’apertura e la chiusura del sipario. Essa, attraverso inevitabili distorsioni, inevitabili errori, traccia tuttavia un preciso diagramma del nostro pensiero e del nostro cuore. […] Abbiamo amato Il gabbiano e ciascuno dei suoi personaggi come qualcosa di ritrovato con una familiarità sconosciuta da tempo. Abbiamo fatto vivere le memorie più care, i tempi favolosi dell’infanzia, la nostra adolescenza turbata in un mondo che precipita, la nostra pena per il tempo che passa, le evasioni impossibili, i “ma” che hanno scosso i nostri cuori e i nostri quieti giorni in cui nulla doveva accadere, i distacchi, le partenze, le viltà, le piccole e grandi miserie di ogni nostra ora […] in una specie di canto, sappiamo quanto sommesso, ma pieno di risonanze, straordinariamente teso a superare l’aneddoto e iscriverlo nel cerchio di un volgersi cosmico degli eventi e degli uomini. Al di là dei nostri limiti, ci resta per ora la certezza che il messaggio di Čechov come ci è apparso, altissimo, al di là delle lacrime e delle pene […] impegna i destini stessi del nostro spirito – i destini di ognuno di noi, in quanto uomo».
Ma COME si sviluppa ciò che, allora, nel ’48, avevo cercato di intuire e oggettivare? Cioè: una volta stabilito il “perché Čechov”, come offrirlo al pubblico?
Ecco! – di qui nasce direttamente una mia teoria che chiamerei “la teoria delle tre scatole cechoviane”. Scatole cinesi – una dentro l’altra, a stretto contatto. L’ultima contiene la penultima, la penultima la prima. La prima – quella che Stanislavskij chiama “del casuale” – è, per me, quella del Vero, ossia del “possibile Vero” – il massimo Vero del teatro. In altri termini – il racconto, la trama, la favola. Interessante – piena di trovate, atmosfere, caratteri che mutano – in ultima analisi “divertente”. È un’avventura umana emozionante il cui interesse è far vedere come vivono i personaggi, dove e perché. È un’interpretazione-visione non naturalistica, ma “realistica” – ma ancora simile a un’ottima “ricostruzione” – come la si potrebbe trovare in un film di atmosfera.
La seconda è quella della “Storia”. Qui l’avventura è vista totalmente “sotto” – come, invisibilmente, affiora nella prima scatola – ma è lo scopo del racconto; qui interessa di più il muoversi delle classi sociali in rapporto dialettico tra di loro, il mutamento dei caratteri e delle cose come passaggio di proprietà. I personaggi diventano parte della storia che si muove – sono la borghesia possidente che sta morendo di apatia e di assenza, la nuova classe capitalistica che sale e si impadronisce, la nuova giovanissima e imprecisa rivoluzione che si annuncia… Stanze, oggetti, cose, vestiti, gesti sono come “straniati” nel discorso e nella prospettiva della Storia.
La terza scatola, infine – è la scatola della Vita. La grande scatola dell’avventura umana, dell’uomo che nasce, cresce, vive, ama, non ama, vince, perde, capisce, non capisce, passa, muore. È una parabola “eterna”, per quanto possa esistere di eterno nel breve corso dell’uomo sulla terra. Qui i personaggi sono visti ancora nella verità di un racconto, ancora nella realtà di una storia “politica”, ma anche in una dimensione quasi metafisica, in una sorta di parabola sul destino dell’uomo. Ci sono i vecchi, le generazioni di mezzo, i più giovani, i giovanissimi, i servi, i padroni, la tizia del circo, […] il ridicolo e via dicendo, c’è una specie di paradigma dell’età dell’uomo e degli uomini. La vita diventa una grande parafrasi poetica da cui non sono esenti il racconto e la storia stessa, ma che è tutta contenuta nella grande avventura dell’uomo in quanto uomo, carne umana che passa.
Ogni scatola ha una propria fisionomia – e il proprio pericolo!
La prima corre il rischio di una pedante minuzia, del “gusto”, del “racconto visto dal buco della serratura”. Ecco, qui posso riferirmi alla chiave di comodo da me usata per spiegare i concetti che avevano ispirato la mia interpretazione di Platonov e cioè una storia vista dal pubblico come attraverso i vetri di una finestra… La seconda ha il pericolo di isolare i personaggi come emblemi di storia, cioè raggelati in una posizione di pesi e di tematica storica (Marx, critica a Sikingen, Lassalle e via dicendo), di togliere umanità ai personaggi per erigerli a simbologia storica. Trofimov, il vecchio studente, per esempio, non è più “vecchio studente” perché è così, ma perché la storia vuole che ci sia un vecchio studente rappresentante di una parte oppressa, vecchio anzitempo perché ha sofferto, forse in carcere, rappresentante del mondo nuovo che sale con incertezze e sussulti: è l’avvenire, in tutti i suoi dubbi obiettivi. Come Liubov e Gaiev, teneri dilapidatori, sono i simboli di una classe decaduta, o la Arkadina del Gabbiano è, nella metafora del teatro – cioè, quasi shakespearianamente, “teatro-mondo” – il passato morente, ma che Costantino e ancor più Nina non riescono a distruggere – o il barone Tusenbach delle Tre sorelle è un Trofimov che antivede il futuro, ma resta vittima del presente. Isolare i personaggi, farne degli emblemi o dei paradigmi può essere un equivoco che porti non alla dialettica, ma alla didascalia!
E la terza? Il pericolo è che possa diventare soltanto “astratta”. Solo metafisica. Quasi fuori dal tempo. E qui il pericolo può venire esemplificato da due concezioni scenografiche – quella di Georges Pitoëff degli anni Venti, con il suo fondale di velluto grigio e i rari mobili, qualla di Josef Svoboda di ieri, con i suoi “trucchi” operati sui materiali di scena. I personaggi diventerebbero emblemi universali e la rappresentazione diventerebbe simbolica.
Fatto sta, invece, che Čechov è tutto questo e si muove contemporaneamente all’interno di queste tre scatole. Questi tre piani possono essere scissi solo per gioco o per studio, possono essere l’oggetto di ricerca dell’entomologo che seziona un essere vivente per studiarne soltanto questa o quella caratteristica – ma l’essere vive nel totale, non è riconducibile a questa o quella – soltanto – delle sue caratteristiche! Occorre prenderlo in toto per “saperlo”! I poeti lo sanno – ci danno figure eterne e contingenti. Ci danno la storia dialettica, rivoluzione e reazione, mondo vecchio e mondo nuovo – la storia dell’avventura umana, cioè un tutto che è contemporaneamente piccola cosa e, nei suoi microcosmi individuali, è Storia con la lettera maiuscola, è membro irriducibile ad altri membri di un suo contesto sociale e al tempo stesso immagine di “essere umano” che porta avanti il mistero della vita dell’uomo, dal primo giorno a quello che sarà l’ultimo. Una rappresentazione “giusta” dovrebbe darci sulla scena le tre prospettive unite e comunicanti l’una con l’altra – ora lasciandoci vedere meglio il moto di un cuore o di una mano, ora facendoci balenare davanti agli occhi la storia, ora ponendoci un interrogativo sul destino di questa nostra umanità che nasce, deve invecchiare e morire. Nonostante il futuro che essa contiene – un futuro che nessuno di noi potrà mai vivere fino all’ultimo giorno dell’umanità stessa.
A questo punto – forse! – credo di aver cercato di rispondere – a me stesso e forse a voi – alle domande – come, dove, perché Čechov? A questo punto è la storia dell’uomo che, in Čechov, si impone con una propria realistica fermezza a qualsiasi motivo contingente sulla legittimità umana delle sue creazioni. Čechov non ci offre unicamente l’iter di una classe o di un individuo, ma propone un cosmo che, partendo dai limiti indubbiamente voluti di un’esemplificazione quasi sommessa, quasi umile, quasi esiguamente quotidiana, tocca le vette dell’universale, del metafisico – e della dialettica storica della vita dell’uomo. In questo senso è vivo e dibattibile oggi come ieri, oggi come domani. Con l’emblematica legittimità “fatale”, che soltanto i grandissimi recano e offrono in sé – e per gli altri.
Intervento al convengo “Anton Pavlovič Čechov”, Università degli Studi di Milano, 27 novembre 1984, dattiloscritto, Archivio Piccolo Teatro di Milano