Che cosa mi ha insegnato Bertolt Brecht? Mi ha insegnato, semplicemente, a fare meglio di quanto non l’avessi fatto prima un “teatro umano”. Un teatro che, divertendo, aiutasse gli uomini a essere migliori. Mi ha insegnato la dignità di lavorare nella società e per la società, dentro la storia e i problemi del mio tempo.
Giorgio Strehler diceva sempre: «Ho messo in scena sette Brecht e mezzo».
Nel 1956, dopo aver assistito, al Piccolo, alla prima dell’Opera da tre soldi, è lo stesso autore a complimentarsi con il regista, scrivendogli: «Mi piacerebbe poterle affidare tutte le mie opere, una dopo l’altra». E Strehler sembra impegnarsi totalmente nel proposito: torna a cimentarsi a più riprese con l’Opera (1973 e 1986), L’anima buona di Sezuan (1958-1996), L’eccezione e la regola (1962 e 1995) e La storia della bambola abbandonata (1976 e 1994), un adattamento dello stesso regista in cui il brechtiano Cerchio di gesso del Caucaso confluisce nella pièce di Alfonso Sastre; affronta Schweyk nella seconda guerra mondiale (1961), Vita di Galileo (1963) e Santa Giovanna dei macelli (1970); non dimentica nemmeno di esplorare il forte legame che unisce Brecht alla poesia e alla musica, con la serie di recital brechiatini (1965-1995), in cui Milva è presenza costante, e con la messa in scena, per il Teatro alla Scala, delle opere liriche Ascesa e rovina della città di Mahagonny (1964) e La condanna di Lucullo (1973).
Distanziazione epica, questa cosa misteriosa e che nessuno riesce a capire nella sua realtà. Nel suo fondo, che cosa è la “distanziazione” se non un’operazione di “poesia”? Anzi, l’operazione fondamentale della “poesia”? L’attore, con un certo tono, con un certo gesto, con toni e gesti insieme, in questo modo o in un altro – infiniti modi e infinite possibilità di sommare addendi diversi – “sottolinea”, distaccandosi, ponendosi cioè “al di fuori” di ciò che rappresenta in quell’attimo, qualcosa. E, in questo attimo, arresta o accelera il tempo, lo ferma o lo fa precipitare, lo muta in “un’altra” cosa. In questo attimo, accende come un bagliore sconosciuto su una cosa sconosciuta da tutti, facendola diventare così “nuova”, mai vista, tutta da capire ancora, come intatta. Oppure spegne una luce su una cosa conosciuta e la sprofonda nel buio, la rende in questo modo nuova, tutta ancora da scoprire e da conoscere. Insomma l’attore tocca, con i mille modi che la sua “arte” gli consente, e isola le cose sconosciute, le non-capite-mai, o non-capite-bene, e le fa diventare così viste sempre nella verità su un palcoscenico ideale dove ragione – e sentimento – si fondano insieme, mai l’una a discapito dell’altro, ma anzi potenziandosi l’una con l’altro.
Se questa è l’operazione della “distanziazione”, l’effetto di questo distacco epico (che non è, come si crede comunemente, “la freddezza”, quindi, dell’essere estraneo alle cose) non rassomiglia forse, in modo impressionante, a quella definizione della poesia che una sera mi diede Ungaretti e che tanto mi colpì? Una definizione che risuona – ovviamente parafrasandola – pressappoco così: poesia? Cos’è la poesia? È quella cosa che fa diventare scure le cose chiare e dà alle cose scure la chiarezza.
Ecco: questa è – per me – la distanziazione epica, la Verfremdung brechtiana. Un qualcosa di umanamente semplice e, come tale, complicata soltanto perché l’uomo è infinitamente ricco e possibile. Questo è il distacco epico: dare risonanza in qualche modo a un concetto – un’idea, un’immagine, prolungare qualcosa in qualche modo – ripeto, in infiniti modi – e far scoprire al pubblico, cioè far scoprire a chi deve ricevere la “poesia”, la straordinaria complessità delle cose umane, la mutabilità continua delle cose umane, la novità di un concetto “antico”; fare apparire per la prima volta il suo non essere cosa “comune, ma cosa da conquistare. Oppure, al contrario, far scoprire a chi ascolta e vede, nella complessità di un avvenimento umano, nella contraddittorietà dell’essere umano, degli esseri umani tra loro, nei loro rapporti, nell’“incomprensibilità” talvolta dei comportamenti, meccanismi-rapporti umani, la concreta e semplice realtà della vita che appartiene a tutti. In definitiva, la definizione più parca della Verfremdung potrebbe proprio essere questa: far scoprire agli altri i rapporti delle cose col mondo, la naturalezza, incredibilmente ricca e contraddetta, l’incandescente unità della dialettica e la folgorante diversità delle cose del mondo. Sempre nuove e antichissime, sempre diverse e se stesse, sempre mutabili, nella loro “apparente” immobilità.
I poeti queste cose le sanno. Noi attori un po’ meno.
Intervento alla tavola rotonda L’opera teatrale di Bertolt Brecht; pubblicato in L’opera teatrale di Bertolt Brecht. Atti della tavola rotonda internazionale del 24 e 25 settembre 1966, Venezia, La Biennale di Venezia, 1966
Indubbiamente la circolazione dell’opera di Brecht in Italia è stata condizionata, in misura notevole, dalla sua presenza viva sulla scena a contatto con un certo pubblico. Per realizzare tale incontro, si sono dovute superare difficoltà enormi che solo in parte coincidono con i problemi generali che l’interpretazione critica di testi stranieri naturalmente pone. Accantonando il discorso pregiudiziale relativo alla “traduzione”, in termini per noi accettabili, dello specifico linguaggio letterario brechtiano, c’è anzitutto la questione centrale dell’“effetto di straniamento”, che urta con un metodo di recitazione – quello dei nostri attori – radicalmente diverso. Personalmente, quando ho iniziato le prove per L’opera da tre soldi, mi sono trovato di fronte a una tabula rasa; né so fino a che punto, oggi, gli attori che hanno recitato con me e altri che hanno visto lo spettacolo siano andati avanti in questa direzione, anche se qualche strumento di lavoro si può considerare certamente acquisito (Tino Carraro mi diceva, giorni fa, di essere riuscito a sostenere certe parti dell’Enrico IV proprio facendo ricorso al metodo epico).
Quanto poi a quella che potremmo definire la “interpretazione italiana” del teatro di Brecht, penso che l’elemento veramente positivo dei miei spettacoli stia nell’essersi posti di fronte alla poetica brechtiana in una posizione niente affatto “reverenziale”, quasi che il Kleines Organon fosse veramente un “breviario” nel senso rigoroso della parola, bensì concretamente rispettosa, cioè costruttiva e libera dunque da “complessi”. Chiunque abbia parlato con Brecht si sarà accorto che egli era tutt’altro che un rigido dogmatico, chiuso nelle formule della sua estetica teatrale; mentre viceversa ho l’impressione che la pubblicazione dei suoi scritti teorici abbia nuociuto non poco a una feconda assimilazione della lezione metodologica brechtiana. Noi abbiamo cercato di evitare tutto questo, e probabilmente con qualche risultato, se Brecht, quando vide L’opera da tre soldi, poté rimanere soprattutto colpito dalla felice scelta stilistica che avevamo compiuto e poté scriverci alcune frasi che non ricordo esattamente, ma che dicevano pressapoco: «Ho ammirato in voi soprattutto la leggerezza nella forza, la libertà nello schema critico preciso, la naturalezza nella precisione e nella forza dialettica». Brecht, cioè, ha praticamente ritrovato nella rappresentazione – infatti – alcuni canoni fondamentali della sua estetica senza però che essi vi apparissero meccanicamente e scolasticamente trasferiti, bensì assimilati nella dimensione del divertimento e dello “spettacolo”.
[…] C’è in Brecht un processo di superamento della tecnica rigidamente “epica”, cioè una marcia di avvicinamento verso il teatro popolare e il teatro dialettico (che sono due forme assai vicine); la rigidità dell’interpretazione epica ha ceduto il passo a una specie di sintesi fra il teatro “didascalico” e il teatro di “divertimento”. Entro questa prospettiva, Puntila e Schweyk non sono più teatro epico, piuttosto teatro critico-popolare. Non credo però che si tratti di una vera crisi, bensì piuttosto di una profonda evoluzione dialettica da parte di Brecht, il quale si trova ora in una società che sta costruendo faticosamente, con errori, il socialismo in una certa situazione internazionale, e si accorge che il “problema drammatico” da porre a questo nuovo pubblico non può essere più lo stesso. È per questo che gli ottimi drammi non si possono collocare sul medesimo piano degli altri. I giorni della comune spostano già l’accento della drammaturgia brechtiana, e Il cerchio di gesso del Caucaso è un lavoro che conclude, secondo me, una parabola e ne può aprire un’altra, passando dalla fase critico-negativa del mondo borghese a una sorta di critica positiva applicata a una realtà profondamente diversa. Se vogliamo citare i versi dello stesso Brecht: «Abbiamo superato le difficoltà della montagna, adesso cominciano le difficoltà della pianura».
Riportato da Paolo Chiarini, “Stasera”, 22 dicembre 1961
Brecht e Goldoni rappresentano due punti fermi nell’ambito della mia ricerca teatrale. Per quelli che sono i rapporti con la società del loro tempo, il senso del loro teatro nell’ambito dei problemi che il loro tempo proponeva, essi mi appaiono – se così posso dire – come una specie di punto di partenza e il punto di arrivo, il principio e la fine, l’alfa e l’omega di quel capitolo della nostra storia che si svolge all’insegna dell’egemonia borghese. Per questo essi sono, nello stesso tempo, vicini e lontani. Postulato di questa ricerca è l’affermazione che nei grandi momenti della sua storia (che coincidono sempre con i grandi momenti della Storia), allorché il teatro è chiamato a significare l’urgenza di nuovi temi politici e sociali, questa presa di coscienza e la conseguente nascita di un nuovo umanesimo trovano nel realismo il loro linguaggio più consono e naturale. Ma questo linguaggio realistico non è “unico”, non è un modo unico di esprimersi. Esso, anzi, può assumere formulazioni e formalismi diversi, a seconda della situazione contingente in cui viene a trovarsi; ma comune a tutte le sue formulazioni sarà sempre la metodologia del suo approccio con la realtà; la direzione in cui sollecita l’evoluzione sociale, il significato umanistico e storicistico del suo assumere “l’uomo politico” a misura di tutte le cose.
Di alcune analogie – senza troppo distinguere tra le semplici curiosità e le spie di significazioni più profonde – dirò brevemente.
L’esordio
Due tra i maggiori rivoluzionari della storia del teatro prendono le mosse da un’adesione al linguaggio preesistente, che nulla lascia prevedere della rivoluzione successiva. Brecht parte dall’espressionismo, Goldoni esordisce con una Amalasunta in tutto inquadrata nella dozzinale produzione tragica del tempo. Questa partenza ha un analogo significato metodologico: la riforma esige riflessione, maturità, tempismo; non ignora il passato, ma vi si fonda. Non brucia le tappe: matura a poco a poco, riassumendo nel proprio sviluppo quello della disciplina stessa che intende riformare.
La cornice
Per ambedue, la cornice è una società còlta in un momento di travaglio: per Goldoni il passaggio da un ordinamento e un costume aristocratici a un ordinamento e un costume borghesi; per Brecht il momento in cui il liberalismo emerso dall’Ottocento affronta nel nostro secolo la sua prima violenta crisi. Ma soprattutto si tratta di eventi in anticipo sulla tabella di marcia europea: per Goldoni, perché la Venezia del suo tempo realizza – sia pure su basi mercantili e non ancora industriali – la fondazione di una società borghese ante litteram, per Brecht perché la sua generazione è la prima a dover affrontare la scelta inattesa e drammatica tra libertà e dittatura, nei termini estremi e violenti in cui si è storicamente proposta.
L’ambientazione estraniante
Una mitica Cina si offre a Brecht come cornice ideale per una analisi di comportamenti, non corruttibile da elementi accessori che potrebbero sviare la capacità critica e analitica del pubblico, portarlo a esercitare una (anche) inconscia funzione censoria sui significati che da quell’analisi emergono. Anche Goldoni afferma di dover superare il pericolo di un’automatica censura – “rimozione”, potremmo dire più modernamente – ove si arrischi a diagnosi troppo sgradite per il suo pubblico: espressamente dichiara di usare a questo scopo ambientazioni che gli permettano un più rigoroso discorso, e colloca una delle sue più critiche commedie – Le femmine puntigliose – in una Palermo non meno lontana e mitica della Cina di Brecht, e in cui è consentita la stessa analisi rigorosa, lo stesso discorso critico ed estraniante dei comportamenti sociali che gli interessano.
Senso sovranazionale
Ovviamente il senso sovranazionale è diverso nei modi, ma anche equivalente in Goldoni e in Brecht – direi – per significato metodologico e ideologico. Nel caso di Brecht è testimoniato tra l’altro – come indizi accessori, ma non irrilevanti – dalla varia provenienza nazionale delle fonti ispiratrici, dalla varietà dell’ambientazione, dalla lezione che è lezione di dinamica sociale evidentemente non limitata alla nazione tedesca. Nel caso di Goldoni – che pure pare così legato al proprio ambiente veneziano – concorre a determinare il senso europeo, classista e perciò stesso sovranazionale, la particolare condizione di Venezia, e quell’ascesa della nuova borghesia mercantile con cui Goldoni identificava la propria ideologia morale e politica. Condizione di Venezia simile a quella delle città della lega anseatica, prima fra tutte Amburgo, dove non a caso operò Gotthold Ephraim Lessing, un altro dei fondatori del teatro borghese, assieme al parigino Diderot – che non a caso si ispirò a Goldoni –, al londinese Lillo, autore di quel Mercante di Londra che segna la nascita del teatro borghese in Inghilterra. Proprio là dove un secolo prima Shakespeare aveva scritto il Mercante di Venezia: il cerchio pare completarsi in questo rapido giro d’Europa da Venezia a Venezia con una serie di coincidenze che – come sempre nella storia – sono frutto di ben altro che del caso o della bizzarria.
Gli antagonisti
L’analogia prosegue, anche se – come sempre – nella diversità della cornice e dei modi. Antagonisti di Brecht furono il teatro dell’espressionismo individualistico, l’esasperato ed esteriore naturalismo, la presuntuosa ed evasiva verbosità della cultura estetizzante. Antagonisti del Goldoni furono del pari l’individualismo arbitrario delle invenzioni del Gozzi, la invalsa volgarità delle maschere – Goldoni non uccise le commedie dell’Arte, le trovò ormai morenti –, l’estetismo frivolo del melodramma metastasiano e degli stanchi epigoni italiani di Racine e Corneille. Strumenti della polemica furono sempre, per ambedue, il confronto con la realtà, la chiarezza diagnostica, la capacità di analisi, la scientificità del raccontare fatti e significati di fatti: una scientificità che è analisi semplicemente “onesta” del tessuto sociale. E coraggio delle conclusioni.
E in tema di conclusione, un’ultima analogia emerge se appena liberiamo nel Goldoni il nucleo drammaturgico essenziale dalle sovrastrutture imposte dagli usi e dalle convenzioni del suo tempo. Un singolare paragone può essere fatto sulla metodologia che conduce alla conclusione finale nientemeno di L’eccezione e la regola di Brecht e di una delle commedie goldoniane più interessanti da un punto di vista ideologico: la Pamela, storia di una virtuosa fanciulla di umili origini che può sposare un nobile cavaliere solo dopo che una puntuale agnizione prova che anch’essa è di sangue blu. La Pamela è tratta da un romanzo dell’inglese Richardson e, tra il 1740 e il 1750, ebbe innumerevoli riduzioni teatrali in tutta Europa a opera, fra gli altri, di Voltaire e di La Chaussée, a prova dell’importanza emblematica che il suo tema ebbe per la cultura dell’Illuminismo e per i rapporti tra la nobiltà e la nascente classe borghese.
L’eccezione e la regola – come è noto – termina con una conclusione a sorpresa: un rovesciamento dialettico del ragionamento e della conclusione preparata dal processo e logicamente attesi dal pubblico. Nella Pamela, l’agnizione finale che il Goldoni conserva – un poco per rispetto all’originale inglese, un poco per ossequio a quel lieto fine a cui tante volte si piega con malcelata insofferenza lo stesso Molière – non può far velo a quella che è la conclusione vera e ragionata della storia: conclusione che è anche qui il capovolgimento dialettico, improvviso e sorprendente, della conclusione più logica e attesa, e cioè del matrimonio tra Pamela e il cavaliere, in nome di quella uguaglianza che l’Illuminismo predicava al di là dei blasoni e dei vantaggi della nascita. Questo matrimonio è rifiutato da Goldoni: la conclusione arriva a sorpresa, dopo che tutto il testo riecheggia i princìpi illuministici dell’eguaglianza fra gli uomini, dell’importanza del “merito” rispetto ai “titoli”, delle virtù umane e morali rispetto a quelle fortune che possono essere frutto del caso, della terrena ingiustizia e via dicendo. La sentenza del Goldoni pare pronunciata dal giudice di Brecht: il matrimonio non s’ha da fare, perché non è vero che nella Venezia o nella Londra del Settecento il merito individuale superi le differenze di classe, perché i princìpi dell’Illuminismo, per quanto nobili e suggestivi, non trovano riscontro nella pratica, perché anche per Goldoni – in ultima analisi – il mondo vigente non è quello della libertà, ma quello della necessità. Questi raffronti, che possono anche sembrare quasi paradossali – e che sono di carattere per lo più metodologico – introducono alla fine l’analogia più ardua e affascinante: quella cioè del carattere fondamentalmente e inequivocabilmente realistico della cifra stilistica del teatro goldoniano e brechtiano. Mi limiterei a definire l’espressione “cifra stilistica” come il “tono”, il “carattere”, il “colore” del ghestus, a sua volta inteso come insieme di parola, ritmo, mimica e immagine: la cellula, insomma, fondamentale del fatto teatrale realizzato sul palcoscenico. È il “tipico” punto di partenza e di arrivo di ogni arte realistica, quella tipicità schematica che illustra meglio d’ogni altra il trasferimento nel mondo dell’arte della realtà dialettica della vita. I grandi poeti fuori del teatro e nel teatro hanno in sommo grado questa capacità e il lontano Goldoni – spesso poco capito e poco rettamente interpretato – e il vicino Brecht – spesso troppo rinchiuso nei limiti di un “teatro politico” e corredato dunque di infantilismo e di schematismo – non sfuggono a questa legge.
Li accomuna qualcosa che va al di là del modulo estetico o stilistico: la viva, profonda curiosità e capacità di “fare teatro”, legata alla molteplice realtà della vita che intorno a loro passa, e di concepire il “teatro” non come luogo immobile, ma come luogo di una dinamica storica che si muove con personaggi totalmente umani e perciò stesso ricchi, contraddittori, veri, che offrono al pubblico una specie di astratto modello del vivere ed essere in rapporto con i propri simili, nella parte di storia che a ciascuno è dato di vivere.
È quest’arte, questa visione dell’arte, il patrimonio delle nostre rivolte europee che si sta facendo – nonostante tutto – sempre più una cosa sola. A questo dobbiamo tendere: un’arte umana in un mondo più umano, più giusto e più solidale.
Ogni gesto teatrale – così come ogni “evento” in poesia o nelle arti figurative – si compone di notazioni che possiamo distinguere sotto il profilo che qui ci interessa, a seconda del loro significato o semplicemente e restrittivamente individualistico, o esemplare di significati generali astrattamente affermati. Tutta la storia della letteratura, e dunque anche del teatro, può essere rinarrata seguendo il prevalere dell’uno o dell’altro aspetto nel personaggio, nella scenografia, nella scrittura drammaturgica; e potremmo distinguere un massimo di notazioni particolaristiche nella letteratura del naturalismo, e un massimo invece di notazioni generalizzanti nella letteratura del simbolismo; nel primo caso il valore gestuale dell’evento teatrale corre il rischio di non sollevarsi al di sopra del particolare caso che illustra, di rimanere legato alla cronaca e di non acquistare utili significazioni didascaliche; nel secondo caso il calore puramente simbolico corre il rischio di astrarsi da ogni riconoscibile e tangibile realtà e di risultare – per eccesso di pretese – altrettanto sterile e inutilizzabile da un punto di vista conoscitivo e pratico.
Nell’arco delle possibilità che nascono invece dalla fusione e dall’accordo di questi contrapposti elementi si pone il concetto eminentemente realistico del “tipico”: tipici sono il personaggio, la battuta drammaturgica, la situazione teatrale, la componente scenografica, che fanno leva su una riconoscibile realtà, anche documentaria, per assumere più vaste significazioni sociali e storiche; tipico è il personaggio che né si esaurisce nelle connotazioni individualistiche, personali, nei tic nervosi del caso limite, né si pone al di là del documento spogliandosi di ogni tratto individualistico per assumere il senso di un postulato metastorico. Il passaggio dall’uno all’altro estremo, questa altalena entro i poli dell’esasperazione naturalistica e della rarefazione simbolista, è sempre manifestazione di crisi, di corruzione di una cultura, di stanchezza ideologica, di smarrimento di accordo tra individuo e società. Sempre, quando può sembrare che la crisi raggiunga limiti intollerabili, qualcosa avviene per cui – sulla base di un rinnovamento della ideologia sociale – anche la letteratura restaura l’equa nozione del tipico, la voce e lo stile, la “morale” del realismo; che altro non è che il ritrovamento di un equilibrio dell’altalena che minacciava di andare troppo in là e – sul piano storico – l’affermazione di nuove e più attuali verità, di una nuova fiducia, la scoperta di un nuovo terreno su cui porre saldamente piedi e fondamenta.
La storia delle riforme che Goldoni e Brecht – nelle modalità caratteristiche e consone ai tempi loro – hanno operato sul teatro, non è altro che la faticosa affermazione di un rinnovato realismo, la restaurazione della nozione del “tipico”. Questa conquista si realizza con un procedimento dialettico che prende le mosse, come abbiamo visto, dalla situazione preesistente, la nega rigorosamente, e costruisce sulla tabula rasa così creata un nuovo e giusto equilibrio, un nuovo punto d’appoggio. Sotto questo profilo il procedimento goldoniano, che obbliga le sfrenate maschere all’intima contraddizione di un testo scritto e precisamente formulato, corrisponde perfettamente al passaggio brechtiano dall’anarchia individualistica dell’espressionismo al rigore epico (e cioè narrativo) dei drammi didascalici; in ambedue i casi si tratta di passaggi intermedi, limitativi del discorso, o – meglio – non ancora esplicativi di tutte le sue possibilità: quando Goldoni spoglia le maschere dei loro costumi e ne ritrova l’equivalente nella realtà sociale del suo tempo, e fa di Arlecchino non più “il” servo in astratto ma “un” servo, o – per l’appunto – il tipico servo del suo mondo, e di Pantalone non più “il” mercante, ma “un” mercante con nome e cognome concreti, anche Brecht supera la schematicità didascalica del Lehrstück per ridare ai personaggi, e a ogni altra componente del fatto teatrale, quella più completa struttura che nasce appunto dalla fusione di connotazioni individuali, personali, psicologiche e dalla possibilità di ravvisare in quelle connotazioni precisi significati e riferimenti a più ampie realtà storiche e sociali.
Quel “teatro dialettico”, che alcuni scritti teorici e vari testi di Brecht adombrano dopo il 1940, è essenzialmente in questa affermazione del concetto di “tipico”, in questa restaurazione di un’analoga riforma; essa si accompagna a una presa di coscienza morale e sociale che appartiene al comune patrimonio dei tempi loro: due verità che stanno tra loro – se così vogliamo – come Einstein sta a Newton nell’ambito delle scienze fisiche; e che hanno in comune quel carattere metodologico, quel rapporto con la società, quella “funzione” rivendicata all’arte, che abbiamo cercato di definire essenzialmente come: affermazione del realismo. Realismo per l’affermazione dell’umano.
Intervento letto l’11 novembre 1972 ad Amburgo, in occasione del conferimento dell’Hansischer Goethe-Preis; pubblicato in Giorgio Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli, 1974
Cari Compagni,
affido questa lettera all’amico Arturo Lazzari, quale testimonianza del mio rimpianto per non poter essere stasera con voi a celebrare, a ricordare Bertolt Brecht.
Sto lavorando: tra pochissimi giorni mi attende la prima rappresentazione di questa nuova edizione dell’Opera da tre soldi.
Non posso lasciare in questo momento delicato il mio lavoro; ma penso d’altronde che anche questo sia un modo per ricordare l’Amico, il maestro scomparso; forse il modo che lui avrebbe preferito: lui che oggi vive nelle sue opere, nelle idee che queste opere sorreggono.
L’opera da tre soldi è stato l’ultimo allestimento di un suo testo che Brecht abbia visto, a Milano, nel febbraio di quel 1956. L’opera da tre soldi è stato – ancora – il primo testo brechtiano che io ho allestito, decidendomi – non senza tremori ed esitazioni, presto vinti dalla concretezza del lavoro – a tradurre sulla scena quello studio e quell’interesse che a Brecht andavo ormai dedicando da molti anni. Sedici anni sono passati da quel giorno, e molta acqua è passata da allora sotto tutti i ponti. Molto del mio lavoro si è svolto da allora nel nome e sulla strada indicata da Brecht.
L’anima buona di Sezuan, lo Schweyk nella seconda guerra mondiale, L’eccezione e la regola, Vita di Galileo, Santa Giovanna dei macelli: i testi che mi onoro di aver portato a conoscenza del pubblico italiano; molti altri quelli che avrei voluto fare, che spero di fare, che farò. Brecht è oggi anche nel nostro paese un classico: un classico vivo, vivo sul palcoscenico, nel movimento di idee che suscita, nell’aiuto che la sua arte offre alla nostra quotidiana arte del vivere. Questa affermazione non è stata – in Italia – una pacifica acquisizione: la diffidenza iniziale (per le novità formali? per i contenuti?) perdura ancora da noi nella conservatrice prudenza del programmi televisivi. E, superata questa diffidenza, il teatro di Brecht ha sperimentato l’equivoco interessamento della moda, la sbrigativa esautorazione di un’intellighenzia che fagocita tutto troppo in fretta e che di tutto troppo in fretta si annoia; le pericolose lusinghe di chi esorcizzava l’ideologia di Brecht offrendogli in cambio la corona d’alloro del poeta, per non parlare degli imitatori, degli epigoni, dei commenti deliranti, delle “interpretazioni” soggettive e via dicendo.
Che a tutto questo Brecht sia sopravvissuto è la prova migliore della validità non effimera del suo teatro. Che tutto questo esso abbia dovuto sopportare non è forse stato storicamente inutile, se permette ora di celebrarlo come un grande poeta senza nulla togliergli di quelle ideologie che ne fanno un maestro di vita sulla strada maestra della storia.
Lettera dattiloscritta, in occasione della Settimana brechtiana a Berlino (febbraio 1973) per il 75° anniversario della nascita di Bertolt Brecht – Archivio Piccolo Teatro di Milano
Più di ventitré anni sono passati dal giorno in cui, nel buio della piccola sala di via Rovello, durante una delle tante prove dell’Arlecchino servitore di due padroni, ricevetti il telegramma di Helene Weigel che mi annunciava la morte di Bertolt Brecht con cinque parole: «Bert Brecht ist gestern gestorben». La magica prova – e fu magica per davvero! – che allora tutti insieme noi del Piccolo dedicammo al vecchio Maestro scomparso, senza che ci fosse nessun accordo tra noi, regista, attori, tecnici, tutti commossi ma tutti a lavorare insieme perché sapevamo che era l’unica maniera per ricordarlo e per onorarlo, è ormai sepolta da altre migliaia di fatti teatrali, di spettacoli, di storia del palcoscenico. Così, per Brecht, potrebbe sembrare: sepolto dalla Storia che è andata avanti. Ma così, invece, non è. Poiché l’opera dei veri poeti, l’opera di coloro che compiono veramente una rivoluzione sostanziale nei diversi campi dell’umano – e B.B. ha tentato e, nei suoi limiti di tempo, compiuto l’unica vera rivoluzione teatrale del nostro tempo – continua a esistere interamente e viva accanto a noi e, anzi, continua ad ampliarsi a mano a mano che di lui si pubblicano testi teorici sconosciuti, nuove raccolte più complete di poesie, nuovi scritti estetici e politici, nuove note di lavoro e persino (vedi, di recente, il Fatzer) alcuni frammenti teatrali inediti. Brecht, lo si voglia o no, continua insomma a costituire un punto di riferimento al quale alcuni (pochi) guardano e al quale si affidano per la ricerca di un Teatro che sia “attuale”, che cioè serva all’uomo d’oggi, che in qualche modo collabori a un movimento teso al cambiamento del mondo. E al quale altri (i più, purtroppo) sembrano volersi quasi sistematicamente rifiutare “saltando” Brecht come se egli fosse stato un avvenimento anomalo, forse “deviante” della drammaturgia contemporanea, con tutte le sciocche definizioni di comodo di “Brecht formalista”, di “Brecht-museo”, di Brecht ormai superato in fase politica, relegandolo al più a “un fatto storico acquisito e sorpassato”.
Con ciò costoro – è la mia opinione – denunciano alcuni precisi limiti culturali e ideologici, alcune terroristiche preclusioni certamente sospette e politicamente mistificanti, che Brecht per primo avrebbe rifiutato e confutato, proprio perché antidogmatico per eccellenza, proprio perché dialettico e attento sempre al divenire della cultura intesa come scambio, come discorso aperto e comune, anche se contrastante. Negli ultimi tempi, anzi, Brecht mi aveva più volte ripetuto che il Teatro, un buon teatro, divide la gente, oggi, invece di unirla. In ciò turbando noi, suoi allievi diretti o indiretti, quasi negando quell’anelito pericoloso all’unità e attraverso essa all’unanimità che caratterizzava un nostro momento politico.
Egli era, invece, in ciò e in altro, molto più avanti del ristretto angolo di tempo che noi osservavamo e vivevamo con molto dogmatismo e con molti falsi idoli; ed era perfettamente coerente con il concetto di un “teatro dialettico” che aveva già preso forma, anche se ancora sotto forma di ricerca, e che andava superando il primitivo concetto del teatro epico. Molti dimenticano questo semplice dato di fatto: che Brecht era arrivato a oltrepassare alcune strettoie del teatro epico e che si stava muovendo verso uno stadio più avanzato di problematica teatrale e artistica.
Del resto, non fu tutt’intera la sua opera segnata dal semplice e difficile titolo di «ricerca»?
Devo dire, proprio in questi giorni in cui Milano dà il benvenuto al Berliner e in cui Milva e io riprendiamo – con qualche non lieve variazione – il nostro recital, devo dire che ciò che mi sgomenta a più di vent’anni di distanza, e guardando tutta l’esperienza del teatro che segue Brecht dal punto di vista dell’uomo di spettacolo, è l’incapacità che il teatro contemporaneo – e in esso, largamente, il teatro italiano – dimostra nell’affrontare Brecht nella teoria e nella pratica, nello studio di una meccanica o di una metodologia teatrale almeno “utile” ad allargare in parte la metodologia stanislavskiana sulla quale tanto teatro ancora lavora, anche con le sue estreme propaggini esemplate in certo odierno “teatro dell’orrore” tedesco, pieno di ipernaturalismo sanguinario cosiddetto “dissacrante”; e dall’altra parte, per porsi come termine dialettico a un teatro di puro gesto, a un teatro dell’urlo o dell’assurdo, dell’Irrazionale o di quante altre cose ancora che hanno caratterizzato la stagione di un’avanguardia (?) non so oggi quanto defunta o transeunte. E ciò che mi colpisce continuamente è l’estrema modestia, il dilettantismo, l’improvvisazione orecchiata di quelle poche e monche teorizzazioni e di quei monchi esperimenti pratici del “teatro epico” inteso quasi sempre in modo esasperante come stilema, come forma esterna, come modulo e non come sostanza, cioè come presa di contatto con un diverso punto di vista della teatralità e quindi della realtà osservata sotto un profilo critico e dialettico, come cosa mutevole e mutabile con tutte le sue contraddizioni, e soprattutto vista nella sua applicazione marxiana della lotta di classe. Il teatro di Bertolt Brecht – parlo della teoria e della pratica teatrali – non è realizzabile, a mio avviso, se non assumendo coraggiosamente le sue implicazioni politiche e accettandole nella loro fondamentale caratteristica di scienza della realtà in movimento, quindi mai come formula, ma, al contrario, sempre come scoperta continua del dato reale. Togliere a Brecht il suo carattere dialettico equivale a distruggerlo.
In tutti questi anni sono esistiti pochi spettacoli correttamente inquadrati in questa metodologia teatrale di tipo dialettico; e gli spettacoli brechtiani da me diretti hanno rappresentato solo l’inizio faticoso di un lavoro che ho continuato e continuerò e nei quali i momenti di presenza di una “nuova concezione della teatralità” nella nostra epoca scientifica erano presenti a lampi, anche se continui, e coesistevano con elementi irrisolti o legati ad altri temi stilistici ancora residui.
Per quanto mi riguarda, io confesso di avere ancora quasi tutto “da fare” con B.B., proprio come dice Bernard Dort nel suo Lecture de Brecht: «La parola fine, Brecht non l’ha scritta». Perché sento di avere ancora un’esperienza insufficiente sui grandi problemi di una nuova drammaturgia del reale – cioè non naturalistica, non evasiva, non irrazionale – e se un rimprovero posso muovermi è quello di ribaltare il rimprovero che invece spesso hanno mosso in malafede a me e al Piccolo Teatro: non il rimprovero di aver fatto “troppo” Brecht, ma di averne fatto troppo poco.
Ho subito anch’io il condizionamento di una cultura intorno a me troppo contraria alle ipotesi brechtiane, in buona o cattiva fede che fosse. Molto spesso sono stato io stesso messo in crisi dalla saccenteria aggressiva, dall’ignoranza superficiale, dalla ristrettezza della visione politica e culturale di coloro che avrebbero dovuto invece – a mio avviso – aiutare un certo lavoro su questo versante. Di questa aggressione, di questa sufficienza, sono responsabili, purtroppo, troppi intellettuali della sinistra militante, troppi responsabili culturali dei partiti di sinistra e troppi “scrittori” e/o critici che nell’ambito della sinistra si muovono e che da sinistra scrivono e agiscono. Basta aprire il catalogo delle varie introduzioni a opere di Brecht, basta leggere tanti saggi pubblicati su Brecht (senza arrivare al livello di Guy Scarpetta, che almeno di sinistra non è), basta sfogliare qualche recensione (e ci siamo dentro tutti, tutte le riviste di cultura della sinistra, nessuna esclusa). Senza contare poi – ma questo già era più prevedibile e storicamente “giusto” – gli intellettuali di destra; e senza contare, in mezzo, i peggiori, i più accaniti: gli intellettuali genericamente “radical-chic”, i liberal-sociali, l’intellighenzia snob. Ricordatevi della stroncatura di Nicola Chiaromonte intitolata Il sergente Brecht!, o certi velenosi attacchi di Ennio Flaiano. Della critica ufficiale, che ovviamente ha le sue eccezioni (e difatti ricordo solo il nome di uno scomparso), si distingue, purtroppo solo nella memoria, il comunista Arturo Lazzari, che in tutto il suo lavoro di esegesi e di recensioni si occupò del fenomeno Brecht con profondità d’intenti, con onestà di idee, con chiarezza di impostazione e con tenacia nel difendere un discorso comune. E non posso dimenticare che tale coerente lavoro “su” Brecht e “per” Brecht gli fu e gli è ancora ascritto spesso come un titolo di limitatezza e talvolta come un motivo di irrisione.
Non esistono, poi, in sostanza, studi seri, metodi e insegnamenti sistematici sul teatro epico-dialettico e sull’opera stessa di Brecht, laddove si sono susseguite numerose traduzioni sostenute però da tesi introduttive dubbie e molto spesso devianti. Forse due soli libri esaurienti su Brecht: quello italiano di Chiarini e quello francese di Dort. Pochissimi attori sanno qualcosa di questi studi e pochissimi tra i pochissimi sanno applicare una certa tecnica di base e oscillano se recitano Brecht tra una specie di falso distacco sentimentale e una raffreddata identificazione stanislavskiana dei loro personaggi. La tecnica della Verfremdung, del cosiddetto V-Effekt, è quasi del tutto ignorata. Se viene quanto meno tentata, non la si sa considerare come dev’essere: una categoria sociale e non estetica.
Tutto ciò segna, all’inizio degli anni Ottanta, confusione e ignoranza, quando non, peggio, malafede culturale, resistenza a un modo di concepire la storia. E questo è tanto più grave in quanto si considera che questo atteggiamento unisce, in una specie di rifiuto sordo e concorde, democrazie socialiste e democrazie formali, reazionari idealisti e qualche marxista. Mi vien fatto quindi di pensare che ancora una volta Brecht si riveli una cartina di tornasole su molti versanti. La verità è che i rivoluzionari dei Sistemi, quelli veri, sono scomodi e non facili da applicare nella prassi quotidiana: così come non è facile portare avanti il loro discorso profondamente innovatore senza urtare contro tutto, mode e contromode, vizi culturali e linee culturali.
Per un altro verso, a un certo punto, senza aver nemmeno sfiorato il problema-Brecht o avendolo al massimo equivocato per schemi di comodo o di propaganda, si è arrivati a parlare di un “modo nuovo” di interpretare Brecht, al di fuori della sua teoria del teatro epico-dialettico e al di fuori dei suoi cosiddetti “modelli”. Brecht “oltre” Brecht, allora? Tutto ciò, del resto, B.B. l’aveva previsto, sempre disposto com’era a riconoscere la legittimità di un’interpretazione purchessia, a patto che si fondasse sulle basi di un comune sentimento della Storia, della politica e della cultura. I suoi famosi “modelli” servivano, o sarebbero dovuti servire per quei registi o quei collettivi che, non essendo in possesso di sufficienti mezzi di genialità o di possibilità pratiche di studio e di lavoro, potevano preoccuparsi almeno di essere corretti nella lettura e nell’interpretazione scenica del teatro brechtiano. Gli altri – ci diceva Brecht – avrebbero dovuto rubare dal suo lavoro quello che gli serviva (e lui stesso si diceva un gran ladro del lavoro altrui, nel senso che questo “rubare” poteva essere anche un po’ quello di nascondersi sotto gli abiti il Dialogo dei massimi sistemi, proibito, di Galileo, e poi farlo proprio).
Troppi pigmei con la smania di farsi grandi – o semplicemente di destar scalpore – hanno, invece, voluto dire la loro in una materia dove avevano soltanto, umilmente, l’obbligo di cercare di imparare. Per altri, i “modelli” sono diventati modelli di grigiore, di noia, di schematismo politico e poetico. Infine, altri ancora hanno preso Brecht per farlo diventare “un’altra cosa”, e sono culturalmente i più vili: hanno cioè preso Brecht non già per andare “oltre” Brecht, ma per andare “contro” Brecht; ad esempio, nel ricercare spasmodicamente i testi della primissima fase brechtiana con una voluttà del riaffermare i “valori” del giovane Brecht contro il Brecht più maturo, il Brecht anarchico e politicamente ancora incerto contro il Brecht del periodo più creativo e più profondo. Con ciò, però, falsando anche questi “valori” iniziali, espressionisti o post-espressionisti (Brecht – a mio avviso – non è mai stato espressionista in nulla). Non è strano che tutto ciò assomigli molto a un certo lavoro che nella sinistra si è andato sviluppando non sempre per curiosità storica e per necessità di studio, ma per evasione e per ricerca di “nuove tematiche” magari nel giovane Marx. I fenomeni culturali sono identici, identiche le matrici ed egualmente pericolose.
In tutti questi anni ci sono stati dei seminari (in genere non si è trattato di veri Laboratori di studio) sul teatro gestuale, sui fonemi, sul mutismo in scena o sulle urla, sui “nuovi” spazi teatrali per venti persone e altro ancora: ma seminari, laboratori sulla fondazione di un teatro dialettico, di un teatro per un’epoca scientifica, di un teatro razionale, no. Teatro campesino sì, teatro di strada sì, teatro di borgata anche. Ma teatro-officina che lavori sulla dialettica, sul razionale, sulla prassi del teatro brechtiano, no (se si eccettua solo il Convegno fiorentino del ’71: ma tre giorni soli). Coloro che potevano tentarlo sono stati a mio avviso letteralmente intimiditi o disgustati da un aperto e continuo terrorismo culturale o – nel migliore dei casi – da un’assenza di interesse “reale”, da parte di troppi.
Molti, penso, non hanno avuto la forza, lo stimolo di intraprendere un lavoro serio su Brecht, altri non hanno perseverato. Il ’68 ha segnato il massimo dell’occhieggiamento di certa intellighenzia di sinistra con l’Irrazionale (lo slogan La fantasia al potere e altre baggianate del genere) e hanno segnato di conseguenza il massimo della parabola di disconoscimento del lavoro e dell’opera di Brecht. Né poteva essere altrimenti. Così, la drammaturgia brechtiana, nonostante diversi spettacoli diversamente riusciti, realizzati sulle scene italiane, è tutta ancora da scoprire, da attuare e da assimilare. Per poi vedere – ma soltanto dopo – dove e come “oltrepassarla”. Voglio dire, semplicemente, che se mi si domanda qual è, oggi, il futuro di Brecht, come m’immagino di poterlo configurare, io penso che la grande lezione brechtiana è ancora tutta da apprendere. Penso che cogliendo questa occasione, se questo lavoro verrà fatto, il teatro contemporaneo ne trarrà un grande giovamento. E io mi auguro che sia vicino il tempo in cui, placati i furori critici dell’“oltre Brecht” senza averlo neppure conosciuto bene, si incominci questo lavoro con umiltà serena, senza timori reverenziali, senza dogmi, per verificare come stanno veramente le cose e per accettare, allora sì, quello che risulterà “utile”, per respingere tutto quello che apparirà caduco, per non lasciare Brecht come un “classico inutilizzato” o utilizzato solo per fini indegni.
Studiare Brecht come maestro di una drammaturgia nuova, di un nuovo modo di intendere il teatro (non solo mettendo in scena un siparietto bianco e un fondale grigio) e come tale da accettare o da rifiutare con conoscenza di causa, con onestà culturale e non con la protervia dell’ignoranza trionfale che è sempre un fenomeno di incultura, perché sempre contro la Storia, contro la poesia, contro la verità. Studiare Brecht in questa società dallo sviluppo sconnesso e abnorme, studiarlo nei grandi temi dialettici di oggi può riservare infinite e proficue sorprese. Per stare a significare, di contro a coloro che pensano all’arte e alla poesia come un mondo a sé e considerano quasi un delitto combattere per costruire un mondo migliore per l’uomo, che si può essere “uomini di poesia” anche lottando contro l’ingiustizia, a costo di farci venir roca la voce.
Dal programma di sala Io, Bertolt Brecht n. 3: essere amici al mondo, stagione 1979-80
Certo, l’esperienza del Piccolo, il mio rapporto personale e affettivo con Brecht, il mio lavoro con lui sono una delle componenti fondamentali di questa storia. Però per un teatro e un regista considerati brechtiani, non sono molti i Brecht che abbiamo messo in scena. Si è iniziato nel 1956 con L’opera da tre soldi: un avvenimento straordinario, nel contesto culturale italiano dell’epoca, perché in quegli anni tutta l’opera di Brecht era sconosciuta in Italia, perché noi abbiamo dietro alle spalle l’oscura storia del Fascismo, fatta di intolleranza, di miseria intellettuale e, soprattutto, d’ignoranza. È stato in quel momento che i rapporti fra Brecht e il Piccolo si sono rinforzati. Del resto già da qualche anno, nei miei spettacoli, io applicavo il modo di lavorare del Berliner Ensemble e di Brecht a Berlino Est, e avevo con lui degli incontri fecondi e commoventi, durante i quali avevo l’impressione di scoprire un altro modo di guardare il mondo.
Il successo dell’Opera da tre soldi in Italia, malgrado la sua carica violenta e rivoluzionaria, fu enorme. Da parte mia io non avevo messo in scena uno spettacolo piacevole o “culinario” – per usare le parole di Brecht – come si fa spesso, ma uno spettacolo demistificatorio, crudo e corrosivo. La società italiana benpensante ne fu scioccata e naturalmente si ribellò con insulti, critiche e pretestuose polemiche. Ma la fetta curiosa e aperta del pubblico si strinse attorno a noi. Brecht, già malato, fu presente alle ultime prove e alla prima, e certamente il ricordo di quei giorni ha segnato la mia vita. Sono, i miei, ricordi di amicizia rispettosa, di fatica e di discorsi: Brecht dava dei suggerimenti con una sorta di noncuranza che metteva a repentaglio i cliché politici e culturali dell’epoca, impregnati di dogmatismo e di intolleranza. Brecht gettava scompiglio nell’ortodossia degli intellettuali di sinistra.
Li ho visti, allora, in preda alla disperazione. Arrivavano camuffati da intellettuali impegnati, con baschi alla russa, occhiali con la montatura di ferro, barbette alla Lenin o alla Trotskij, per sentirsi dire che le cose non erano così semplici come pensavano, che il teatro epico era già superato, che un teatro rivoluzionario doveva essere bello, che bisognava tenere conto della lezione di Chaplin, che Beckett era un grandissimo autore e poeta, e così via… Si sentivano dire, soprattutto, che la realtà era un grande processo dialettico, che il piccolo libro di Mao Sulla contraddizione (allora non ancora di moda) era un contributo importante alla comprensione del marxismo, e che bisognava dubitare di tutto, perfino di certe idee ben radicate. Il “vecchio maestro”, che non era assolutamente vecchio, e che portava il suo berretto da lavoratore non per sembrare un proletario ma per abitudine, partì. Qualche mese dopo ricevetti la notizia brutale della sua morte. Comprendemmo immediatamente che perdita aveva subito il teatro mondiale, senza però misurare la grandezza della solitudine nella quale ci lasciava. Solo a poco a poco, continuando a lavorare sul suo insegnamento, ci siamo resi veramente conto del suo apporto fondamentale alla drammaturgia contemporanea. Da parte mia penso che Brecht sia stato un grande maestro di teatralità più ancora che un autore, peraltro incontestabile.
Abbiamo continuato il lavoro su Brecht con L’anima buona di Sezuan nel 1958, poi con Schweyk nella seconda guerra mondiale – un Brecht cosiddetto minore, ma non per noi in ogni caso –, con L’eccezione e la regola e, infine, con la Vita di Galileo. Con questo testo la nostra ricerca brechtiana trovò un punto di partenza e un punto di arrivo. Avevamo acquisito una certa tecnica; avevamo pagato il nostro tributo di inesperienza e ci trovavamo di fronte l’immenso campo di ricerca che il teatro dialettico offriva a tutti. Lo spettacolo fu considerato una provocazione in Italia, a causa della posizione antigalileiana della Chiesa, e il Piccolo rischiò di essere completamente annientato. Questa reazione alla Vita di Galileo nel 1962-1963 è tipica dell’intolleranza del potere nei confronti di certe opere e della dipendenza in cui, un certo contesto politico nazionale e internazionale, tiene il lavoro culturale. Quanto ci capitò allora può fare riflettere tutti coloro che dibattono – nelle democrazie liberali – sulla libertà della cultura. In realtà fu proprio grazie a questi valori “collettivi”, grazie a questa democrazia conquistata dalla Resistenza contro la barbarie, che Galileo continuò, malgrado tutto, la sua vita e fu rappresentato anche nelle stagioni seguenti e, alla fine, non sembrò più uno scandalo, ma una conquista culturale della collettività. È su quell’onda che, poi, abbiamo montato delle serate di poesia e di canzoni brechtiane “inventando” quella straordinaria cantante che è Milva. Più tardi toccò a Santa Giovanna dei Macelli, a due nuove edizioni dell’Opera da tre soldi e all’Anima buona di Sezuan. Malgrado tutto, dunque, sia il Piccolo che io, abbiamo poco sviluppato il nostro lavoro su Brecht, nonostante lo si sia proseguito in altri spettacoli applicandolo come metodo critico,come ricerca sul teatro dialettico.
[…] Il comportamento dell’intellighenzia e della critica nei riguardi di Brecht e del mio lavoro su Brecht ha toccato punte di malafede. I grandi maestri e i grandi rivoluzionari sono sempre la pietra di paragone per valutare quel fascismo sottile e perverso, che va ben oltre i limiti storici, perché si insinua, si inserisce nel cuore stesso della nostra società ben più in profondità di quanto non appaia. Il lavoro su Brecht è sempre stato frenato dalla destra, che denunciava il nostro teatro, perché così facendo tradiva le regole dell’obiettività che un teatro pubblico deve avere, come perversamente marxista e comunista, e dalla sinistra – cosa che secondo me è ancora più grave – che stigmatizzava un teatro nel quale la vera lezione rivoluzionarla, edulcorata in un prodotto di consumo, era divenuta una moda, un ammiccamento. Sono molti quelli che, da sinistra, hanno criticato e criticano ancora i nostri spettacoli brechtiani perché sono dei prodotti borghesi che snaturano il messaggio di Brecht. E, purtuttavia, quelli che lui ha potuto vedere gli sembrarono esemplari: ci sono le sue lettere, le sue testimonianze… […] La rappresentazione delle opere di Brecht, dunque, se non fu interrotta non fu però mai incoraggiata, perché contestata un po’ da tutti. Tuttavia il Piccolo ha continuato la sua vita, accettando, entro certi limiti, il gioco ed è pronto a riprendere con vigore più grande un discorso in parte interrotto. Per quel che mi riguarda ho intenzione, in futuro, di lavorare su Brecht: penso sia giusto e utile.
Strehler intervista Strehler, programma di sala de La grande magia, stagione 1984-85
Brecht è uno dei personaggi più complessi che io abbia mai conosciuto. Non recitava, non ne aveva i mezzi, né fisici, né vocali. Ma quando dava indicazioni di regia, interpretava al posto degli attori, e sapeva farlo. Era scrittore. Ma la mia sensazione – e mai ho avuto voglia di ricredermi – è che sia stato addirittura più grande come regista che come drammaturgo. Tre o quattro dei suoi spettacoli, due non scritti da lui (La madre di Gor’kij e il Coriolano che non terminò prima di morire, oltre Madre Coraggio e a Puntila) rimangono fra le esperienze più emozionanti che io abbia mai vissuto. Invenzioni particolarissime, nuovi oggetti in scena, un uso rivoluzionario dell’attore.
[…]
Morì di solitudine, di crepacuore. Avrebbe avuto il diritto, quasi il dovere, di vedere i tempi che stiamo attraversando oggi. Eravamo noi, invece, i giovani dogmatici. Lui era il ritratto dell’uomo che dubita, che non si concede mai, per sistema, la sicurezza assoluta. Il suo fu un insegnamento di dialettica continua. Giorni e giorni di prove, poi, giunti a un risultato, il ripensamento. Tutto sbagliato. Ricominciamo. Non esiste nulla di fisso. Ogni cosa è mobile, transeunte, può essere cambiata con una migliore. Brecht era in guardia fin da allora. Ho imparato, frequentandolo da innamorato, a legare il teatro con la società che lo partorisce. Ho capito che l’ingresso a teatro della Storia è fondamentale. Il teatro può guarire le scelte sociali, volontariamente o involontariamente; può affascinare nel Bene e nel Male. Occorre saperlo. Tante volte siamo sul punto di lasciarci sopraffare: la teatralità seduce di per sé, possiede il potere attrattivo del diavolo, che non lascia quasi mai distinguere, al primo momento, di che seduzione si tratti.
I grandi della scena, “Ulisse 2000”, marzo 1990
La stagione prossima leggerò, insieme ad altri, le note di Brecht per Aspettando Godot di Beckett [il progetto in realtà non si concretizzò, ndr]. Avevo incominciato a fare un adattamento della pièce, con alcuni cambiamenti stilistici dovuti alla traduzione. Brecht stimava molto Beckett. Diceva che gli sarebbe piaciuto, dietro il vuoto che circonda Vladimir ed Estragon, inventare qualche cosa in costruzione, non sapeva cosa, ricorrendo magari alla proiezione di un film. Ignoravo che avesse scritto delle pagine su Beckett e che conoscesse molto bene il suo teatro. Una sera mi ha detto: «Sai, c’è una cosa che mi piacerebbe sapere. Vorrei chiedere a Beckett dove erano Vladimir ed Estragon durante la seconda guerra mondiale». Cinque anni dopo ho incontrato Beckett a Parigi. Parlando con lui mi sono accorto che anche lui conosceva bene l’opera di Brecht. «Prima di morire, Brecht mi ha confessato che voleva farle una domanda» gli ho detto. «Voleva sapere dove erano Vladimir ed Estragon durante la seconda mondiale». «Nella Resistenza» ha risposto Beckett. Ecco tutto. E ha fatto la Resistenza lui, l’uomo del pessimismo assoluto. Nel momento in cui bisognava impegnarsi, non era “dall’altra parte”.
«Hai notato» mi diceva Brecht «che nel mondo vuoto di questo pessimista nessuno si uccide?». Se si osserva da vicino l’opera di Beckett, non c’è in effetti neppure un colpo di revolver, nessuno si suicida. Tutti i personaggi dicono che la vita è orribile, piena di aborti, senza gambe e senza braccia, ma ci sono, Beckett è lì, testimone della vita. In questo senso Brecht era colpito dall’opera di Beckett. Mi ha addirittura detto: «Un poeta è sempre ottimista, anche se descrive la fine del mondo, anche se afferma che non si può più vivere insieme. Nel momento in cui lo scrive è perché ha fiducia nel mondo».
Intervista di Olivier Schmitt, “La Stampa”, 10 luglio 1995
In passato, mi è stato spesse volte rimproverato di dedicarmi “troppo” a Brecht, quasi si trattasse di un autore pericoloso, che necessitava, come un medicinale, di essere preso a piccole dosi…
Se qualche rischio esiste, nell’affrontare il “discorso Brecht”, sta solo nella complessità e in tutti i fraintendimenti che, in ragione dell’interesse prevalentemente politico della sua figura, si sono via via susseguiti e contrapposti. È stato un fiorire, negli anni, di libri, libercoli e articoli scandalistici che non sono però mai riusciti a scalfire i dodici o tredici volumi delle opere complete di Brecht. Un lavoro artistico che ha scandito, dai primi del Novecento agli anni Cinquanta, la storia di un uomo nella Storia, ma prima di tutto la vicenda di un uomo e di un poeta. Uno dei massimi della contemporaneità. Il problema è che bisogna leggerli quei libri. Bisogna leggere anche quelli che, di solito, si lasciano magari da parte, occorre guardare più a fondo, con occhio vigile e critico.
[…]
Oggi vogliamo vedere se Brecht è ancora da discutere e, soprattutto, se fa ancora discutere, se Brecht ci appartiene ancora. La domanda implicita è: Brecht è ancora un nostro contemporaneo oppure ha, come sostiene Max Frisch, la stupenda inattualità dei classici? È indubbio che lo sfruttamento ideologico di Brecht, la sua “moda”, a un certo tempo, la parzialità del discorso critico, la sommarietà delle analisi da parte di quasi tutte le parti in causa non hanno permesso mai, o hanno permesso solo raramente, la conoscenza di una complessità, di una liricità assai alta, di una visione del mondo di Brecht che sempre sorprendono pubblici di ogni tempo.
L’umanità di Bertolt Brecht, la sua malinconia per le cose che passano, le sue dolcezze, il suo amore per gli esseri della terra, il suo sdegno per la ferocia e la bassezza del vivere sociale, insomma il suo impegno che “rende rauca la voce” coesistono in una grande avventura letteraria del Novecento. Brecht non voleva mai assolutamente essere chiamato Maestro: voleva che gli allievi, la gente di teatro, il pubblico, tutti insomma lo considerassero piuttosto come “uno che fa delle proposte”; ed esse potevano avere il respiro ampio ed epico di opere come L’anima buona di Sezuan e Madre Coraggio, oppure l’incisività dei drammi didattici, o, ancora, la leggerezza dei divertissement musicali degli anni giovanili.[…] La ricchezza di Brecht sta nella ricchezza dei suoi contenuti e della sua grandezza poetica.
Contemporaneo o classico?, “Primafila”, maggio 1996