Strehler, con la collaborazione di Luciano Damiani, autore delle scene e dei costumi, ha radicalmente mutato gli elementi figurativi dello spettacolo di diciannove anni fa, al Piccolo, tenendone fissa la linea poetica-didattica. Lo spettacolo di allora, come qualcuno ricorderà (le scene erano pure di Damiani), si rifaceva a un Oriente stilizzato, a una Cina da parabola, con casette dal tetto a pagoda, che correvano parallelamente alla ribalta dietro una fila di pali del telegrafo e della luce. C’era un’aria più scopertamente illustrativa anche nei costumi (erano di Ezio Frigerio) e in quella gessosa e dura maschera che la brava Valentina Fortunato si metteva sul volto quando da Shen Te doveva trasformarsi nel “cattivo” Shui Ta.
Questo spettacolo, invece, è dentro l’acqua. Forse prendendo spunto da alcune parole di Shen Te, quando dice in un song: «La mia scuola, un rigagnolo, fra botte e menzogne», Strehler ci presenta una superficie madida e lustra d’acqua, interrotta da profonde pozzanghere, in cui i personaggi sguazzano; e sparsa dei rottami, dei relitti di una periferia disperata e livida (da città del Terzo Mondo, ipotizza il regista). Bidoni, il muso di un piccolo aereo con l’elica spezzata, neri e logori pneumatici, mucchi di immondizia vorticano in tondo, mossi dal palcoscenico girevole, che determina non poco la dinamica dello spettacolo.
Della parabola fiabesca in questo realismo di oggetti rimane solo un segno, un fondalino a mezz’altezza, su cui Damiani ha disegnato un tronco di cono vulcanico, molto di maniera, qualcosa che richiama a un paesaggio giapponese dipinto su un paravento. Là dietro stanno i tre dèi, e scendono su un balconcino illuminato, vestiti di bianco e accollati, sembrano pastori protestanti in tenuta estiva. Oppure, ecco che s’affacciano a un palco di proscenio, in frac o smoking, binocolo agli occhi, come spettatori di teatro della Belle Époque; e, verso la fine, ecco che sorgono, ridotti a tronconi beckettiani, da bidoni della spazzatura; che è un’allusione satirica-parodistica, forse un po’ pesante, ma divertente, al teatro dell’assurdo.
Ma l’elemento figurativamente e anche tematicamente unificatore di questo spettacolo è l’acqua, quel velo livido in cui la gente e gli oggetti del Sezuan, la tenda-negozio di Shen Te, il furgone-ufficio di Shui Ta affondano. È, a ben pensarci, ancora la landa del Re Lear strehleriano, metafora scenica di un deserto; o, meglio, di una prigione. Precarie assi di legno attraversano quei laghetti d’acqua fangosa, sostengono in equilibrio l’umile idillio di Shen Te con l’aspirante aviatore (che poi diventerà un cinico carrierista) Yang Sun. Fiati e parole d’amore, i ginocchi della ragazza, il fianco del giovanotto, quasi sdraiato accanto a lei, si intridono d’acqua: una silenziosa disperazione che sale, l’impossibilità di essere felici, siamo conficcati nella melma. I commercianti, gli sfruttatori che vengono da fuori, la signora Mi Tzü che affitta catapecchie a quei miserabili, il barbiere Shu Fu, opportunista del sentimento e degli chèques, si avventurano per quel paesaggio fangoso in punta di piedi, saltellando con grottesca agilità fra una pozzanghera e l’altra. La gestualità come indizio di comportamento sociale, avrebbe detto Brecht.
[…] Nessuno, come Strehler, sa darci il senso della metamorfosi brechtiana, di questo teatro dei mutamenti a vista e delle scomposizioni linguistiche. Esemplari in questo senso sono due scene: quella della cruda conversione industriale del piccolo commercio di Shen Te ad opera di Shui Ta e del servile Yang Sun (un movimento circolare di fortissima teatralità, emblema della produttività e dello sfruttamento capitalistici); e quella dell’ultima trasformazione della protagonista nell’immagine del “cugino cattivo”: entro una bolla di luce stampata sul siparietto bianco, che vien giù verticalmente, le fasi gestuali di una convenzione scoperta – trucco, vestito, voce – e appunto per questo tanto più crudele e significante.
Di un livello ottimo tutti gli attori che hanno partecipato allo spettacolo. Citeremo Kurt Beck nella parte dell’acquaiolo Wang, l’umile e appassionato intermediario fra Shen Te e gli dei raminghi in cerca di bontà; e Heinrich Giskes, che come Yang Sun è di una forte evidenza dimostrativa e interpreta con impeccabile vocalità i non facili song di Paul Dessau. Ma Der gute Mensch von Sezuan (che dovrebbe letteralmente tradursi La buona persona del Sezuan) è soprattuto un banco di prova per un’attrice. E qui Andrea Jonasson ci dà le due immagini opposte di Shen Te e di Shui Ta con uno stacco netto, impressionante per duttilità istrionica, interpretando il primo personaggio con una sorta di roca e umile dolcezza e attribuendo al secondo una dura schematicità e rigidità di gesti e di toni, marionetta feroce cui il filo, sotto l’urto del sentimento, ogni tanto si spezza.
Per capire la popolarità e l’affetto di cui Strehler è circondato in Germania bisogna avere assistito, come noi domenica sera, all’esito dello spettacolo: un quarto d’ora buono di applausi e acclamazioni a lui e a tutti i suoi collaboratori.
Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 28 settembre 1977