È questo il verso conclusivo di una poesia di Bertolt Brecht che ho letto, all’inizio delle prove, ai compagni dell’Anima buona di Sezuan, edizione 1981 del Piccolo Teatro, cioè venticinque anni dalla sua prima comparsa sul nostro palcoscenico. Una intera generazione fa.
Una dedica al nostro e al loro lavoro. Perché il sentimento di questa breve lirica vuole essere il segno della nostra disperazione, ma anche della nostra fiducia non tanto nel futuro della nostra guerra (quella che iniziammo con Paolo Grassi più di quarant’anni fa) per un teatro diverso in un mondo diverso, quanto nel valore del semplice gesto dell’uomo intento al suo lavoro per difendere le cose che ama e in cui crede. Fiducia negli sforzi di tanti altri, oltre che nostri, per non lasciare abbattere le triplici porte così sconnesse di questa nostra Troia, dagli invasori della dissoluzione, dai massacratori della vita, con sistemi sempre più occulti e più perversi. Fiducia nei valori fondamentali dell’esistenza umana, gli unici capaci ancora di annientare la barbarie che ci circonda.
Non c’è nessun trionfalismo, nessuna piccola caparbietà, nessuna nostalgia di coerenza nel riproporre, da parte nostra, quest’opera di Brecht, scritta nel 1939, alle soglie di un’altra barbarie, diversa e uguale, come la barbarie è sempre, perché i mostri si rassomigliano sempre e il fantasma di Guernica è sempre pronto a divorare le sue colombe.
C’è semmai la constatazione, per noi chiara, vorrei dire serena, che questa “parabola drammatica” ha riconquistato (se mai l’aveva persa) una sua necessità, una sua attualità tragica, una sua ancor più sconvolgente novità formale, di quanto non l’avesse nel momento della sua scrittura.
Le opere dei poeti o impallidiscono e svaniscono nel tempo, giudice implacabile, o si fanno più forti, gridano più alto e si impongono con più violenza nelle contemporaneità dei posteri. In un mondo come il nostro, in cui – mi pare – si sta realmente perdendo ogni misura e, quindi, anche e soprattutto la misura della bontà perché incapaci ormai di intenderla come “atto quotidiano” (cantare una canzone, montare una macchina, piantare qualcosa. «Questa è bontà» dice Brecht), incapaci di vivere la poca bontà di cui disponiamo come “normalità” e non come eccezione, in un mondo in cui il problema del male è solo la prova dell’orrore che è diventato ormai un’abitudine (ed è questo il fondo dell’orrore), in cui tutto ormai “costa troppo caro” in ogni senso, per poter dirsi noi, ancora, interamente umani, in cui fissiamo quasi con freddezza la violenza che esplode in ogni minuto della nostra giornata e in cui persino il “divertimento” è diventato, sui nostri piccoli schermi notturni, un continuo massacro a colori, un’opera come L’anima buona di Sezuan sembra quasi fotografare, sotto il profilo dell’arte, questa atroce schizofrenia che si è impadronita di noi.
La schizofrenia di Shen Te, anima buona, e di Shui Ta, anima cattiva, è la nostra stessa schizofrenia che ci viene riproposta nella luce implacabile del teatro, nostro specchio e nostra vita, messa davanti a noi perché in essa noi ci si possa riconoscere e capire. E questa schizofrenia non è solo quella dei grandi doppi della letteratura (Stevenson e Il Dottor Jeckyll e Mister Hyde, tanto per intenderci), non è solo il problema del nero che è in noi, del nostro inconscio, che purtuttavia ha certamente una sua eco nella parabola brechtiana. Non è solo, insomma, “problema di coscienza”. È piuttosto un paradigma della “schizofrenia sociale” nella quale viviamo. È il paradigma di questa spirale di dissociazione che sembra non avere più una soluzione di continuità. E – in questi giorni – molto spesso ho pensato a ciò che Fornari [Franco, autore di numerose pubblicazioni in cui evidenzia gli aspetti psicoanalitici della guerra, ndr] più di tutti ha intuito su questa nostra “follia dell’era atomica”. Impossibilitati di fronte al “terrore atomico” – che ci assicura la nostra morte insieme a quella altrui – di riversare il nostro “male” nell’“Altro” per esorcizzarlo, impossibilitati a distruggere i nostri Shui Ta, perché siamo costretti a riconoscere che Shui Ta siamo noi stessi e che uccidendo il “nemico cattivo”, il cattivo cugino, saremo fatalmente uccisi anche noi, resi dunque sterili persino in questa nostra magia da infanti, che pure – in qualche modo – ci consolava, e nello stesso tempo non ancora abbastanza adulti da accettare la nostra realtà umana “così come è”, la nostra responsabilità sociale “per quello che è”, è di accettare la nostra depressione per uscirne se possibile maturi, “uomini”; noi viviamo il crepuscolo di questo giardino manicomiale del mondo in cui ancora, nel suo spazio di vuoto perlaceo, intorno a una distesa di fango e di acque e di rifiuti, sorgono e tramontano lune e soli agitandoci con tanto poco amore e gridando, chiedendo aiuto agli dei, alla Storia, alla Ideologia, per strapparci appena un poco dalla Grande Angoscia che ci pervade. Ma questa angoscia è “in noi”. E la sua dissoluzione è solo in noi e tra noi. È affare nostro, di noi, appunto, “effimeri di questo pianeta – ultimo rifugio – che è fatto così”. E perciò il gesto conclusivo dell’Anima buona, che non poté essere buona e che noi abbiamo fatto rivolgere al pubblico, perché ci è parso implicito nello svolgimento del testo, chiedendo aiuto, là, alla gente riunita come simbolo del mondo e non altrove, investe la collettività con un grido-interrogazione che non può non appartenerci e non coinvolgerci con la perentorietà che hanno i grandi gesti della poesia. Non può soprattutto non investirci di responsabilità.
Tanto più greve di significati e di valori è, per un altro verso, questa che noi consideriamo una delle grandi opere della drammaturgia contemporanea, in quanto essa ci si presenta con una lievità formale, con una sua specie di distacco, di lontananza metaforica, con l’eleganza suprema del linguaggio che anche una traduzione può solo appannare un poco, ma non distruggere. E c’è in una sintesi, quasi sempre risolta poeticamente e drammaturgicamente, tutto o quasi tutto quello che, nel teatro, è venuto dopo quel 1939 che segna la fine del travagliato cammino di Bertolt Brecht compiuto con L’anima buona di Sezuan. C’è la grande lezione del “teatro epico” proposta non come “fatto didattico”, ma come risoluzione poetica, come modo nuovo di “fare teatro”. C’è, cioè, l’applicazione semplice e naturale di una nuova tecnica drammaturgica di cui il teatro non potrebbe oggi fare a meno per confrontarlo almeno con altre risoluzioni e altre proposte. C’è la “lezione didattica”, ma non didascalica, come la vorrebbe l’anti-brechtismo degli stenterelli. C’è la “dimostrazione”, ma non scolastica, della “famosa” scena di strada (altro feticcio per i brechtiani e per gli antibrechtiani). C’è il “teatro dell’assurdo”, c’è il “teatro gestuale”, in cui però il “gesto” non appare soltanto “liberatorio” di uno stato d’animo soggettivo, ma gesto socializzato, che discrimina, che connota non solo un carattere personale, ma un carattere sociale, storico. C’è il teatro “mimico”, il gioco-dramma della pantomima che inventa spazio e cose e persone. C’è molta clownerie, oggi che tanto si parla di questa possibilità drammatica (una delle infinite possibilità del teatro). Ci sono anche musica e canzoni che si integrano nel racconto e nello stesso tempo creano zone di pausa e di critica e di ripensamento. E ci sono brividi stilistici – mi pare fitti nel testo – che ci portano persino alle soglie dello sgomento beckettiano.
Penso che la complessità e la compiutezza formale della sintesi, che si riscontrano nell’Anima buona di Sezuan, non possano, in definitiva, non porci, sotto il profilo dell’arte e del teatro, di fronte al grande problema Brecht, che tanti di noi hanno vissuto, in positivo o in negativo. Ancora una volta.
Forse nel momento meno opportuno che poi risulta, ai fini dell’arte, sempre il più necessario. Brecht è stato molto tradito e molto frainteso. Tradito e frainteso anche da coloro che ne hanno enfatizzato (spesso male) i valori.
Può questa rappresentazione dell’Anima buona di Sezuan far iniziare, come nuovo, perché mai in fondo c’è veramente stato, un discorso serio, pacato, dialettico e soprattutto non infantile sulla presenza dell’opera di Brecht nel cuore della nostra contemporaneità?
Oltre l’evidente coinvolgimento nostro nell’opera che oggi rappresentiamo, oltre il sentimento del suo messaggio (non ho davvero paura di adoperare questa parola “diventata sporca” per tanti nipotini di un’estetica “pura” che alla fine è soltanto l’estetica della frigidità), può forse anche questo “lavoro di teatro”, questa nostra “ricerca”, rappresentare il nostro pezzetto di legno, infilato nelle triplici porte sconnesse del nostro Teatro-Mondo?
«Come i Troiani dunque, anche noi…».
Dal programma di sala de L’anima buona di Sezuan, stagione 1980-81