Miei Cari!
Le vostre letterine collettive sono tenerissime e mi hanno fatto molto bene. Fortunatamente sto, in genere, troppo male per soffrire di più a esservi lontano. Fino a ieri la febbre era così alta che una notte Andrea (fatevelo raccontare!) mi ha visto inginocchiato in mezzo alla stanza mentre “cacciavo i demoni” che mi stavano mangiando dentro e soprattutto le gambe e i piedi. Recitavo in latino le formule dell’esorcismo e dicevo, non al Signore in persona perché ero troppo verme, ma a Cristo (che è più buono) di farli smettere. Una cosa allucinante e che prelude alla mia definitiva conversione. Maranzana mi capisce.
Sto curandomi meglio che posso. Nelle mie farneticazioni penso di venire almeno il 23-24-25 a fare qualcosa. Cosa e come non so. Ma sono farneticazioni. O forse no. Non so, vi ripeto.
Io sento che questo spettacolo (ma che cos’è poi uno spettacolo?) ha bisogno, aveva bisogno di molto ancora, sento che eravate immaturi, che eravate squilibrati, che non c’era “una compagnia” con idee chiare, certezze, che non c’era anche uno “spirito” comune, non dico di buona volontà o professionismo, ma di attitudine interiore. Qualcosa non vi aveva unito nella diversità. I “vecchi” che lo avevano già fatto oscillavano tra vecchio e nuovo. Conoscevano tutto e questo impediva loro di conoscere una nuova realtà non ancora chiarita, forse nemmeno da me. I vecchi nuovi avevano esperienze diverse, moduli diversi, non parliamo per carità di epico e non epico di cui vi dirò qualcosa. Si affaticavano (e neanche molto devo dire. Non sono stato felice del “lavoro” singolo, persino del sapere la parte).
I giovani, alcuni di loro o tutti, che avevano forse la maggior sicurezza e la maggiore disciplina interiore, nonché il maggiore spirito collettivo. Per forza: sono creature mie. Possono essere più o meno bravi, ma hanno un “solo” metodo di pensare e fare teatro. E sono sempre presenti, in continuità. Qui non sto facendo l’elenco dei buoni e cattivi. Faccio una diagnosi collettiva di un collettivo molto scomposto che non si è saputo unire e unificare. Il perché non lo so. Certo ci deve essere anche una mia colpa. Vi dico la prima: pensavo allo stesso spettacolo e sapevo che non poteva esserlo. Ho tentato di “rifarlo” per enorme stanchezza, anche interiore, e sono arrivato tardi a capire che bisognava fare tutta un’altra cosa, che alla fine sarebbe diventata la stessa, in modo diverso. Troppi anni sono passati, troppi visi e storie diverse. E il luogo: un altro che solo io “conosco” e so adoperare. Ideale per Brecht, in genere. Ma questo spettacolo era nato altrove e in un altro modo. Speravo di dover spendere meno, speravo di avere gente più pronta, entusiasta, giovane, curiosa. Non era vero. Molti di voi sono stanchi, come me. Un poco usati, anche se ancora meravigliose macchine di teatro umano. Spero che tutti voi mi capiate. Altri non sapevano neanche di che cosa si tratta. Insomma non siamo partiti bene, io non sono partito giusto, io vecchio e stanco ma… da un’altra parte sono d’una freschezza e giovinezza inimmaginabile! Solo occorrevano altri tempi. Occorreva più pazienza con me stesso, aiuto, disponibilità artistica, non tentativo rapido di scuola e altro. Pochi giorni di prove. Una gran parte spesi a inventare un nuovo ambiente, con un altro vecchio pazzo, geniale, che però pazzo resta, come me. Non siamo riusciti a far concordare il vecchio e il nuovo, l’esperienza e la ricerca e la sorpresa, non c’è stato equilibrio fra quello di ieri e quello di oggi. A poco a poco, con uno sforzo per me inimmaginabile (né voi né nessuno sa quanto intellettualmente è costato!) siamo riusciti “quasi” a capire, a decondizionarci? Parlo di me e di Luciano Damiani (e l’aereo e il bus, e questo e quello). Pensate che Luciano era arrivato a ipotizzare che era meglio non fare il girevole! A poco a poco, dico, siamo rimasti lì per partorire il nuovo dal vecchio, in equilibrio.
E in mezzo voi, i protagonisti di una storia magnifica, di una favola lancinante, terribile e dolce, durezza e tenerezza, un po’ frastornati o molto frastornati, senza una limpida volontà di scoprire. Non vecchi? Pensate al “dramma” personale di Andrea. Attrice da una parte matematica («io fatto questo», questo sa e questo fa, da leggere con piccolo accento tedesco) e dall’altro capace di invenzioni e coraggio che crede fermamente di non avere.
Insomma, è stato ed è difficile tutto.
Questi ultimi giorni erano per me vitali. Vi giuro che avrei saputo legarvi, precisarvi, sciogliervi, vi giuro che vi avrei fatto diventare una “vera compagnia” più o meno omogenea. Vi giuro che tutte le incertezze si sarebbero sciolte e, se non tutte, le principali. E invece vi scrivo per vizio, quasi.
Vi dico poche cose che però dovreste tenere a mente e rifletterci.
1) È una parabola. Cioè una storia, una favola. Raccontate una favola, ma non a bambini un poco scemi (sarebbe più facile), ma a bambini grandi che vivono in una società mostruosa, magari senza saperlo bene. Che sono Shen Te-Shui Ta tutti giorni, senza un piano e senza i denti d’oro. Che lo sanno e non lo sanno o non lo vogliono sapere. Che vorrebbero avere anche una soluzione, un aiuto. Brecht non glielo dà. Duramente, severamente gli racconta la favola. E poi e poi… non gli racconta cosa fa il principe, come si fa a svegliare la bella addormentata, come si fa a non essere costretti a chiamare il cugino neanche una volta al mese. Nel teatro reale di B. B. non c’è l’«Aiuto» che faccio dire io. C’è un epilogo letto da un attore e finisce dicendo: bisogna a tutti i costi trovare una soluzione, ed è finito. L’aiuto è come dire: aiutiamoci tutti. Siamo poveri, mezzi Shen Te e mezzi Shui Tu, quasi tutti, diamoci una mano.
Tutto dunque deve essere raccontato per questo. Per portare la gente, con dolcezza e forza, a riconoscere che le cose più o meno stanno così e che non si sa più cosa fare. Che quella soluzione non funziona o funziona a un prezzo troppo caro. Che devono trovarne un’altra. Naturalmente bisogna raccontare con un leggero distacco, quasi un sorriso nascosto, con levità ma con molta precisione. E dare importanza alle cose che si dicono e si fanno. Ma importanza non con effetti da opera lirica, ma con grazia un poco ironica. Chissà se Maxmilian sa bene che il suo “solo” potrebbe anche non farsi quassù, che si potrebbe allungare ancora di più. Se non si facesse, entra, chiede una sigaretta, lei gliela regala e lui la prende e la fuma felice. Tutto è chiaro: Shen Te è buona, lui è povero, preferisce una sigaretta al pane perché costa meno e tutto finisce lì. Ma noi l’abbiamo fatto come una dilatazione simbolica (gestus) dei tempi. Sigarette come droga, droga come disperazione e pane, illusione di felicità e tutto quasi comico o tragico nella sua esaltazione. Quello che fa è difficilissimo e facilissimo, al tempo stesso. Un poco di più, diventa una incomprensibile storia, un poco meno non si capisce perché. È il tempo, il gesto della mano, l’occhio, il piccolo giro ebbro e tante altre cose che la fanno diventare qualcosa. Oppure no.
Ma quello che dico vale per tutti: tempo, precisione e, nello stesso momento, quasi imprecisione, tutto pensato e realizzato e tutto inventato al momento. Oh sì! Il vero teatro (chiamiamolo epico, per fare contento B.B., ma invece è solo teatro) è difficile. La misura è difficile, il distacco con il massimo della tensione interiore, la fantasia con il massimo della precisione sono difficili. Dare il massimo senso senza farlo pesare pur facendolo pesare come un macigno, questo è difficile. E in questo teatro è più possibile che mai. Perché si “parla” col pubblico.
2) Le favole si raccontano ai bambini-pubblico guardandoli spesso in faccia, facendo aspettare il colpo di scena, facendo capire loro che si racconta proprio per loro e non per “fare teatro” dei grandi. Sì, teatro con sentimenti complessi, resi chiari e semplici come la verità. L’assurdo come il più logico. Pensate alla rottura volontaria della mano di Renato. Farlo come se fosse naturale e logico, l’unica soluzione è fare capire: a) che è finto; b) che pare logico ma non lo è. È l’assurdo totale per “disperazione sociale”. Deduzione, io faccio capire ai bambini che ascoltano e ai quali racconto la storia che in certe condizioni si può finire a fare azioni mostruosamente illogiche e anche autolesionistiche e anche altro, come se fosse tutto giusto.
Sospetto: e se anche gran parte di ciò che succede di pazzesco nel mondo, dai suicidi, ai padri che uccidono i figli, ai figli che sparano ai padri e via dicendo, fossero “azioni pazzesche” fatte con la logica della necessità della disperazione? Ecco che allora una “cosa piccola da ridere”, un giochetto di scena comico fa forse scoprire una parte della tragedia della vita umana “oggi” e ieri e… speriamo di no, domani. Questa è una lezione, “un’epica”.
3) Pensate sempre che per divertire gli altri bisogna divertire in qualche modo se stessi.
4) Pensate che “veramente” un attore esiste solo se è sempre presente e, se è sempre presente, lo è al di là delle battute. Non è la consolazione per le piccole parti.
5) Pensate sempre che siete un “insieme”, che dipendete sempre l’uno dall’altro. Anche quando non parlate e siete fuori scena.
6) Siate lievi, però netti, sicuri di quello che volete dire.
7) Siate fantasiosi, certo, col pericolo sempre di essere fantasiosi male. Ma un attore, che non “inventa” qualcosa di diverso e nuovo ogni sera, che cos’è? Come un attore che inventa soltanto una cosa diversa e nuova, ogni sera, cos’è?
Insomma, miei cari, Sezuan è difficile perché richiede una tecnica “non epica”, ma una tecnica di attori veri, che sono veri e falsi, che sanno tutto e fanno finta di non sapere, che dicono cose gravi con leggerezza o cose lievi con gravità, o il contrario: cose gravi come gravi e cose lievi come lievi. Ma non sempre, non per sempre; la tecnica vera degli attori è sorprendere e farsi riconoscere. Quando sono riconosciuti, cambiarsi di colpo e diventare estranei; Sezuan è difficile perché si deve recitare con precisione estrema e coralità. Sezuan è difficile perché il teatro vero è difficile. È il teatro finto che è facile. E, vi prego, meditate su questo: se è difficile perché deve essere fatto con allegria, con grazia, con rapidità ma non buttato via, non perché fa ridere non perché commuove o altro. Tutto potete fare, ma non essere pesanti, incerti, senza senso. Tutto potete fare, ma non essere dei ridicoli da farsa, dei niente. Ricordatevi sempre che i migliori maestri insegnano facendo divertire. Tutto questo comporta che dovete diventare una unità. Che dovete fare, dire cose tremende spesso come se non lo fossero. Che, ad esempio, le terribili battute di Shui Ta-Shen Te, lo strozzamento, il muro e tutto il resto devono essere, quelli sì, veramente terribili, ma non perché grido e mi si gonfiano le vene del collo, ma perché grido, certo, e non possono non gonfiarsi anche le vene. Che questo è niente di fronte a quando mi si gonfia il cuore al pensiero.
Che dovete immaginarvi di fare uno spettacolo semplice e anche uno comico, e anche molto tragico, con un ritmo non militare ma di ballo, cosciente della sua bellezza, grazia e forza. Oh quante cose potrei, dovrei dirvi e avrei dovuto dirvi e non l’ho fatto. Ma forse questo è il momento dell’autocoscienza. Che al tempo stesso è estrema severità ed estremo abbandono.
il vostro Giorgio
Lettera dattiloscritta alla compagnia dell’Anima buona di Sezuan, aprile 1996 – Archivio Piccolo Teatro di Milano