Ricominciamo il lavoro sull’Opera da tre soldi. Faticoso e quasi con pena. Riandare con la memoria a ciò che è stato compiuto, per affrontarlo con l’oggi, è per me operazione dolorosa. I miei spettacoli sono nati non so come, non ricordo mai come, sono vissuti per un lampo e sono spariti inghiottiti da un inferno teatrale che continua. Non vale cercare di riprendere con una nuova esca il già definito-indefinito che è uno spettacolo passato nel tempo. Pure, è necessario un controllo critico, capire cosa si è fatto e perché, cercare l’errore per non ripeterlo, misurare un cammino percorso e da percorrere. Così mi aggiro tra fotografie e memorie e liste di costumi e di attrezzi, nomi di attori e attrici, visi, gesti e suoni rievocati. Il nastro inciso rigira ossessivo, i motivi ritornano. La costruirò diversa, quest’Opera del 1972, o sostanzialmente uguale? E in che cosa sarà diversa? E perché? Come è necessario che sia, come è giusto? Questa pena critica di capire meglio accompagna tutto un versante del nostro lavoro di registi. Ne è la spina e la forza più retta.
E, accanto, c’è l’abbandono del cuore, verità e inganno al tempo stesso. Questo pericoloso viaggio dell’interpretazione, a metà tra l’intuizione e la ragione, sempre sospeso tra il battito del cuore e l’implacabile necessità della logica e della storia, questo correre avanti e indietro in continua verifica di sé… La mia corsa tra palcoscenico e platea, così continua e così estenuante, è soltanto la mimesi di un atto interiore che nessuno vede. Sono un cane che corre, afferra e riporta e ricorre, riafferra e riporta incessantemente… Rileggendo una nota al programma antico dell’Opera [1956], mi ritorna ancora in mente Brecht, l’ultima volta che lo vidi. Oh, questo maestro che così poco mi ha parlato di persona! C’è una dolcezza nel ricordare un “maestro”; noi, generazione che avuto così poco o nulla dai maestri. Noi, generazione che non ci vergogniamo di aver avuto bisogno disperatamente di maestri e di crederci ancora. Misuro la distanza della mia età proprio davanti a questa considerazione: che quasi non capisco i giovani di oggi che non hanno bisogno di maestri o ne hanno paura, che non vogliono dovere niente a nessuno. Io sento una grande tenerezza, calma, nel dirmi: «Grazie per quello che mi hai dato, vecchio maestro. Grazie per avermi accompagnato per mano, magari per avermi anche forzato talvolta a piegare me stesso e subito a spiegare me stesso nel suo perché!». Amare coloro che prima di noi, accanto a noi, ci hanno dato, è umano, l’umano più semplice e naturale. Ma pare che non sia o non debba più essere così. Perché? Il punto centrale, per una interpretazione dell’Opera da tre soldi è il suo apparire gastronomico per essere antigastronomico. L’apparenza del divertente che diventa di continuo allarmante. L’evasione piacevole che diventa spiacevolezza e aggressione diretta. O indiretta. Sui due versanti, rappresentare l’Opera come un colorato sottomondo proletario, fantastico, inventato e anche aggressivamente innocuo, o come un inequivocabile, sinistro, violento “fatto” di violenza (qui non conta l’altro dei problemi: l’anarchico o meno, il carattere dell’eversione più o meno socialmente evoluto o definito), che dalla scena raggela il pubblico borghese in ascolto, sono ambedue errori di fondo. L’uno tenta di escludere l’altro e ciò contro il testo, la sua volontà di essere in un dato modo che si potrebbe, entro questi limiti, definire “ambiguo”. Nei limiti, appunto, di una delle cinque maniere per scrivere le verità, quando non si può farlo. Ambiguo, ma volutamente ambiguo, come scelta metodologica, non come incapacità o insufficienza ideologica. Perché L’opera da tre soldi rappresenta proprio questo giocare il sistema della società borghese, all’interno, con alcune sue armi (dal pittoresco, persino, al patetico, dal generico rivoluzionario alla canzone). Ciò che poche rappresentazioni dell’Opera sono fino a oggi riuscite a fare, e, meno che meno, il film di Pabst. Brecht, in questo senso, aveva pienamente ragione (utopica nei fatti!) di processarlo. Nel riprendere in esame l’Opera, di nuovo si pone la problematica che va al di là del rifare il già fatto. Indubbiamente, al tempo della sua prima edizione o della successiva (poco modificata), si era aggiunto questo equilibrio instabile che giustifica e determina il successo dello spettacolo nel pubblico, per demistificarlo in ciò che ha di più gelosamente segreto: il suo perbenismo borghese. Il pubblico non borghese poteva, del resto, cogliere ugualmente il suo messaggio e divertirsi. Direi che (scindendo in due parti il pubblico, e la divisione è certo schematica) il pubblico borghese credeva di trovarsi, dapprima e durante, davanti a uno spettacolo innocuo, che non lo coinvolgeva (sono dei banditi, è una storia fantasiosa che non si svolge oggi). Poi e continuamente, a tratti, a lampi, a battute, a situazioni gestuali, veniva a contatto con la carica eversiva del testo-spettacolo, veniva colpito brutalmente e subito rimesso in una specie di equivoco sorriso (mi viene di chiamarla, quasi, tecnica subliminale cosciente), quasi pacificante, in una atmosfera piacevole. Alcuni esempi: nel Kanonensong Mackie Messer e il capo della polizia Brown la Tigre cantano, ricordando i bei tempi passati in guerra. Bevono il solito whiskaccio e rammemorano tempi gloriosi, da buoni commilitoni. La canzone è piacevolmente ritmica, con qualcosa di eroico e brutale (le trombe all’unisono, il tamburo militare), ma jazzisticamente eccitante e melodicamente cantabile. In essa si parla di altri commilitoni: Johnny e George e altri che, ai bei tempi, sono morti per la patria. Poi la patria e la sua guerra si scoprono una guerra coloniale. La progressione della scoperta è perfetta, perfettamente dissimulata e perfettamente leggibile. Non solo: fin dall’inizio si scopre che i due commilitoni, nella vita militare di cui rimpiangono le glorie e gli affetti, vivevano come cani, senza coperte, senza mangiare, erano cioè sfruttati indegnamente senza che se ne accorgessero. Anzi, oggi, ricordano con commozione fraterna quei momenti gloriosi e, per gli alienati totali come loro, diventati miticamente piacevoli. E la musichetta continua a ritmare implacabile il suo passo di marcia one step, e le trombette svettano acute, e i piatti risuonano allegri. Gli ascoltatori (membri della banda di Mackie Messer, cioè ladri e ladri diversi, il grosso, il magro, il giovane traviato, l’immigrato, lo sportivo, il ridicolo) e il cappellano Kimball, celebrante del matrimonio del re dei banditi, ma soave e dolcissimo, seguono divertiti il canto dei due amici. A poco a poco, il ritmo della marcia, i suoni, le parole, l’allegra violenza dei due incominciano a coinvolgerli: dapprima battono i vetri sul tavolo con le forchette, battono il tempo coi piedi, sorridono e accennano il loro piacere con i movimenti del capo e del busto. Alla fine, come attratti dal cerchio della luce che isola Mackie e Brown, che gridano rievocando i loro massacri piacevoli da commilitoni allegri, tutti si schierano attorno ai solisti, come un plotone in marcia e in grida. Attaccano anche loro a cantare l’ultimo ritornello, con gesti sempre più violenti e precisi, estraggono quasi automaticamente le “armi personali” (rasoio, catena, coltello e pistole) e le agitano verso l’alto. Persino il reverendo piamente dalla tasca ha tirato fuori la sua arma di difesa personale e l’adopera come gli altri. Sull’ultimo accordo, sul quale riecheggia il ritmo di marcia dei piedi di tutti, le pistole sparano: fuoco e fumo dal gruppo per un attimo. Il proiettore bluastro si spegne di colpo. La musica tace. Il gruppo di colpo si scioglie, come uscendo da un sogno, le armi sono rimesse in tasca, riprende il piacevole convito di nozze. Non è successo nulla. Soltanto un piccolo coretto di amici un poco alterati. L’applauso qui scoppia ineluttabile. Ed è assai complesso. Da una parte, la situazione drammatico-musicale è trascinante. Il tutto è ritmicamente eccitatorio, piacevole. Le parole paiono travolte dal fatto musicale. Ma non possono esserlo del tutto (il ritornello è ineluttabile, è ossessivo nelle sue frasi, non si può evitare di annotarlo), arrivano dentro attraverso il melos e il ritmo e la situazione normale in apparenza. Poi l’avvicinarsi dei compagni è ineluttabile anch’esso dal punto di vista ritmico (lo faremmo anche noi, pubblico), quindi non sospetto. Come del tutto non sospetta appare l’estrazione delle armi (è l’eccitazione del momento, sa, cantando e muovendosi capita!) e il movimento dei piedi che battono sempre più selvaggi, anche questo moto normale (come non farlo?). Insomma, sembra che dietro non ci sia nient’altro che piacevolezza, automatismo, voglia di cantare insieme, di far rumore. E il reverendo? Il reverendo è nella massa, è trascinato (pover’uomo, sant’uomo) e lui non estrae armi come gli altri. Quando l’estrae, è per ultimo. Lo si vede quindi di più. È evidente. È orribile o sconvolgente o altro. Ma è un lampo chiarissimo e brevissimo. Il canto è finito. La luce è spenta. Tutto inghiottito. Riprende l’altra anormalità normale. Pure tutto può essere stato recepito e annotato in modi diversi, dal conscio all’inconscio, dal ragionato al subliminale appunto, in zone diverse delle diverse coscienze, o stadii, o posizioni sociali e sensibili degli spettatori. L’applauso che scoppia è liberatore di una tensione fatta di motivi diversi, da quello puramente ritmico-animale (a livello più basso), a quello del malessere da esorcizzare e allontanare, da quello della coscienza sociale che ha analizzato gli stadi differenti di demistificazione della banda che canta e marcia, a quello della bellezza piacevole, estetica, spettacolare, quella del buon teatro, per esempio. L’intrecciarsi dei motivi, sostanzialmente demistificatori ma anche parzialmente mistificatori, è fittissimo, e un motivo non preclude l’altro. Anzi lo potenzia, lo veicola meglio e lo mette in dialettica con altri. Alla fine, si potrà dire, da un lato, di aver visto e sentito un potente song sulla guerra, che finisce in un coro e in un crescendo drammatico superbamente realizzato, piacevole anche plasticamente (con alcune trovate, come quella del gruppo che si unisce per cantare a coro e marcia anche lui come fossero soldati). Un grande momento di teatro. Dall’altro lato, di avere visto in atto un processo di demistificazione della mitologia della guerra, dell’alienazione dell’atto guerresco, del coinvolgersi ignobile degli altri alla follia guerresca, anche del reverendo che diventa un sanguinario cappellano militare (magari, a suo tempo, benedicente labari e torturatori). Una lezione sul condizionamento di classe in rapporto alla guerra e ai suoi miti. Guerra e religione borghesi, come borghesi sono i ladri. Tra queste due percezioni estreme, la teatrale gastronomica e la dialettica e sociale sul versante marxiano, altre percezioni intermedie: per esempio quella della società tedesca, alle soglie del nazismo. Cioè il gruppo visto non come condizione borghese tout court, ma come condizione in un dato momento storico della società tedesca nel 1928 ecc. Presentimento della crudeltà nazista e via dicendo, vista però più come accidente demoniaco che questione di lotta di classe. Si potrebbe continuare. Ma ciò che interessa, qui, è notare la metodologia tipica che Brecht e Weill usano, e qui è messa in evidenza–non evidente–evidente. Il discorso nasceva per me dal rapporto instabile di piacevole-spiacevole, accattivante-scostante, affettivo-aggressivo che è alla base dell’Opera. Ma, sostanzialmente, i metodi sono due: o si parte dal piacevole come base plastica, visiva, auditiva e si immette l’acido continuamente, nel preparato, a volute, schizzi e altro. O si parte dallo spiacevole, dall’inquietante e lo si veicola con il piacevole, l’accattivante, quasi il mistificatorio. Nella prima edizione, il metodo seguito fu il primo e diede buoni risultati. Al di qua e al di là dei singoli episodi più o meno risolti. Lo spettacolo risultò chiaramente piacevole, in apparenza anche bello, quasi insospettato (al di là della mitologia brechtiana e dell’avvertimento aprioristico del pubblico che si trattava di un’opera rivoluzionaria). Infatti, il pubblico difficilmente rideva al primo tempo dell’opera. Si divertiva moltissimo al secondo, poiché aveva creduto di capire che si poteva ridere e che non era poi così rivoluzionario, questo testo di Brecht, come avevano sentito dire, e rideva pochissimo, e anche applaudiva molto meno al terzo tempo. Probabilmente, aveva capito troppo il sottofondo gastronomico. Eppur tuttavia, tutto sospetto, sospettabile e sospettato. Mi viene da chiedermi, ora, se la metodologia dovrà essere la stessa. Addirittura lo stesso spettacolo, anche se rifatto (cioè diversissimo, dieci o quattordici o sedici anni dopo!) oppure se è necessario invertire il rapporto e impostare lo spettacolo sul versante più crudo e spiacevole per piacevolizzarlo. Il risultato dovrebbe essere uguale, ma l’accento di partenza opposto. Oscuramente sento un’attrazione ineluttabile verso questo processo. Ma perché? Perché c’è in me un bisogno “demoniaco” di fare diverso il già fatto? Il trovare o il provare il nuovo tipo di spettacolo sulle spoglie di quello antico perché già usato? Un nuovo bisogno figurativo? O altro? Tutti agguati, in fondo, anche se possibili e plausibili e artisticamente validi. Oppure tale attrazione o tendenzialità è il frutto di un contesto storico-temporale che mi spinge a trovare un nuovo modo o forma di colloquio con la collettività? Secondo me è questo il problema di base che si dovrà affrontare nel riproporre l’Opera a un pubblico del 1972. Esso deve essere argomento di discussione collettiva e di ripensamento privato, esso deve essere valutato sensibilmente e criticamente a lungo prima di essere deciso. Dalla comprensione della realtà (come sempre) può nascere, o non nascere, la necessità della rappresentazione dell’Opera da tre soldi, oggi. Che sia necessaria poi l’Opera in se stessa non c’è dubbio. Sempre, nella società capitalistica, la favola dell’Opera da tre soldi sarà emblematica e pertinente. Basterebbe considerare che, dal 1928 a oggi, la favola è ancora attuale per definire la caratteristica, immutata nella sostanza, della nostra società. In una società realmente socialista L’opera da tre soldi o non è da rappresentarsi o da rappresentarsi come un racconto di tempi bui di un mondo che non è più. Il problema si pose al Berliner al tempo della sua ripresa dell’Opera. Io fui contrario, in una discussione collettiva con la Weigel, a questo esperimento. Per un motivo che non dissi allora: e cioè che, nella repubblica tendenzialmente socialista tedesca, alle soglie della destalinizzazione ma ancora indietro nel suo processo, nelle contraddizioni e anche mostruosità che circondavano il socialismo di guerra e staliniano e della cultura zdanoviana sparsa in Europa, solo un’interpretazione dialettica, terribilmente dialettica del testo, in un contesto proletario, aveva una ragione di esistere. Brecht avrebbe dovuto cioè riscrivere l’Opera o riadattarla a una società avviata al socialismo, con tutte le sue terribili contraddizioni e deviazioni piccolo borghesi-dittatoriali. Cosa avrebbe fatto Brecht? Non lo sappiamo. Brecht morì pochi mesi dopo. Ma rappresentare L’opera da tre soldi come poi fu, a una mezza via fra satira del mondo borghese e critica del Lumpenproletariat, a una società non borghese ma di base ormai proletaria con altre contraddizioni, fu un fatto “inutile” e artisticamente non valido.
Appunti di regia, pubblicati nel programma di sala de L’opera da tre soldi, regia di Giorgio Strehler, stagione 1972-73