Strehler non ha dubbi. Con tutte le sue ambiguità di prodotto che ammicca alla piacevolezza mentre punta a una grossa rappresentazione satirica della società capitalistica, L’opera da tre soldi mantiene per lui intatta anche oggi la sua validità. E dello stesso parere sembrano essere le migliaia di spettatori che ogni sera gremiscono l’enorme platea dello Châtelet, il Théâtre Musical de Paris che col Théâtre de l’Europe ha prodotto questa Opéra de quat’sous.
Ecco dunque che Parigi, che in fondo non l’ha mai amato molto, riscopre Brecht, tramite Strehler. Sbaglierò ma, nelle intenzioni del regista, questa vuole essere L’opera da tre soldi per gli anni Ottanta; resa insieme più esplicita e più ermetica, più complicatamente allusiva e in definitiva più emblematica.
Lo spazio, intanto, ha qui una funzione fondamentale. Sul grande palcoscenico dello Châtelet, già tempio dell’operetta francese, Strehler affonda la scena di Ezio Frigerio in una penombra dubbia e fantomatica. La scena richiama, mi pare, a quella dell’edizione del ’73. Una New York rossiccia, con le sue facciate delle case percorse dalle scalette di sicurezza, due girandole da luna park simili a due enormi ruote di bicicletta coi raggi e tutto, che s’accendono e girano quando entra in campo, come dice Brecht, l’arte sorella, la musica. In alto sfilano le scritte luminose che illustrano i vari quadri e un sipario di ferro a mezz’altezza, il tipico siparietto brechtiano, corre lungo la ribalta, davanti alla passerella che sormonta l’orchestra.
Fino a questo punto, salvo un più impetuoso sfruttamento dello spazio, non si notano differenze sostanziali dalla messa in scena italiana del ’73; solo che quella era ambientata nell’America degli anni Venti e questa sempre in America, dalle parti di Brooklyn, ma al principio del secolo. Ma ecco, i lembi di quel siparietto di ferro – su cui è impresso il titolo «L’opéra de quat’sous» – si separano e fra l’ondeggiare ritmico, quasi una danza spettrale, di quella losca società (banditi, prostitute, falsi mendicanti, poliziotti: i costumi beffardi e in qualche modo disperati di Franca Squarciapino), da un grammofono a tromba posato per terra esce, a cantare la ballata di Mackie Messer, la famosa Moritat iniziale, la voce agra, un po’ isterica, un po’ in falsetto, di Bertolt Brecht; che è un colpo di teatro emozionante.
Su questa spinta lo spettacolo cresce poi di continuo, vedi lo splendore grottesco delle scene del matrimonio di Mackie con Polly nel garage e la beffarda cupezza di quelle dei falsi mendicanti, nel guardaroba di Gionata Peachum, spacciatore di protesi e di stracci. E tutto, come si è detto, è in qualche modo più allusivo, più cifrato; il profilo di una società ingiusta e crudele si delinea per guizzi, quasi intervenissero di volta in volta, con il loro scoppio espressionista, crudi tagli di luce. I grandi song filano inevitabili e struggenti, ammirevolmente cantanti da tutti i componenti del cast, mentre l’orchestra (ha curato la direzione musicale Peter Fischer) lima volutamente certe dolcezze della partitura di Kurt Weill, la rende più aspra, più critica, restituisce al song il suo valore straniante.
Ma il ragionamento sullo spettacolo deve andare di conserva col giudizio sugli interpreti perché questo gruppo, composto da attori di tre diverse nazionalità, basta da solo a fare l’eccezionalità di un evento teatrale.
Ecco dunque l’austriaco Michael Heltau, attore fedele a Strehler, così fine e distaccato nella parte di Mackie, cui conferisce, un po’ come faceva il nostro Carraro, un certo spirito moschettiere che non perde mai d’eleganza e di controllo. Gli dà la replica, come Polly, Barbara Sukowa, attrice tedesca clamorosamente affermatasi in questi anni sia nel teatro che nel cinema; qui una vera e propria colonna dello spettacolo. Essa dona a quel suo personaggio di finta amorosa, in realtà di inquieta soubrette, un impeto istrionico duttile e cangiante, che si traduce in un vero e proprio argento vivo. Col suo partner canta alcune canzoni, le più parodisticamente patetiche e melodrammatiche in tedesco e i due allora, nel passaggio improvviso, da una lingua all’altra, ottengono effetti sorprendenti.
Yves Robert, che viene dal cabaret, è un beffardo Gionata Geremia Peachum e Denise Gence, già decana della Comédie-Française e altra fedelissima di Strehler, una spiritosa Celia Peachum. Querulo e ritmico, Jean Benguigui, attore di origine algerina, è il capo della polizia Tiger Brown e una brillantissima Annick Cisaruk impersona Lucy, sua figlia.
Milva va citata per ultima perché, nel personaggio di Jenny delle Spelonche (o dei Lupanari) fa un po’ parte per se stessa; intanto per il successo che riscuote, davvero emozionante, quando canta in quel suo francese che non sarà magari perfetto ma che è fondo, terroso come una foce di fiume; e poi per la sua presenza scenica che è inconfondibile e che, in campo femminile, su questo palcoscenico, solo la Sukowa riesce a fronteggiare.
Quanto agli intendimenti profondi su questa regia, mi pare che Strehler da una parte abbia accentuato i colori della sua satira sociale che svariano nella commedia; e dall’altra ne abbia particolarmente valorizzato quel grande gioco teatrale che deriva direttamente dalla fonte settecentesca del testo, L’opera del mendicante di John Gay. Senza dimenticare che qui di Brecht si tratta, con le sue ambiguità, i suoi trascoloranti piani dialettici, i giochi chapliniani di certe sequenze (tutte le scene di Mackie Messer che entra ed esce dalla gabbia di sicurezza, fra un balletto di poliziotti). Strehler non si ripete mai, anche se rimette in scena spesso gli stessi testi.
Così, se violentissima risulta, come nella prima edizione, l’intimidatoria marcia dei falsi mendicanti nel terzo atto (tanto che il pubblico ne rimane come attanagliato e sfoga la propria emozione con un grande applauso), essa è qui più stilizzata, le varie figurazioni, che appaiono più intervallate, sono fissate ognuna in un Gestus preciso come una nota musicale. E l’inganno del finale ottimista e posticcio, con l’arrivo del messaggero che reca la grazia per Mackie Messer, è risolto con un movimento derisorio (l’apparizione di un castello da fiaba), ma anche con tutto un tripudio da grand opéra in cui Strehler sembra alludere – vedi quei pupi siciliani – all’eterno caravanserraglio italiano, alla violenza mascherata di questi anni.
In questo modo egli ci restituisce l’attualità, che pareva appannata, del testo; ma la riconsegna anche a un divertimento da beffardo musical, riscoprendo un’Opera da tre soldi classica e insieme nuova, più densa, più intrigante, più vivace, che il pubblico parigino accoglie ogni sera trionfalmente.
Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 12 novembre 1986