Caro Luciano!
Rivedo con la memoria le scene del Galileo così come l’altra notte hanno preso corpo.
Eravamo arrivati a un punto morto. Non sapevamo più come andare avanti. Partiti, a Venezia, su quello “studio delle forze” di Leonardo che io avevo preso come “emblema” della scenografia del Galileo, del suo “spirito” più che della sua forma, ci siamo arrestati nel momento in cui l’impianto scenico doveva incominciare a “contenere” delle cose. Oggetti da usare, sedie, tavoli, lavagne, strumenti scientifici, bicchieri e vino e altre cose per “indicare” in modo inequivocabile, poetico “sotto un certo punto di vista”, anche il “luogo scenico” particolare: la stanza di Galileo. Davanti alla chiesa, a Firenze, nell’anticamera dei Medici, e così via.
Questo straordinario impianto, nato così esattamente da quel piccolo disegno leonardesco, quella capriata che è nello stesso tempo “chiesa” e “luogo scientifico”, lo spazio riposato, calmo, chiaro – certo uno spazio come Brecht avrebbe voluto – ora doveva servire agli attori e al pubblico. Perché è evidente che la prima “qualità” di una scenografia è la sua possibilità di “essere adoperata”, il suo uso, l’ampiezza dei “modi” in cui può essere usata, la sua capacità di “suggerire” azioni, movimenti e figurazioni, innanzitutto.
Sotto questo profilo la scenografia ha una caratteristica specifica che non sempre, o quasi mai, viene sottolineata. La scenografia non è – e tu lo sai bene – solo “un fatto estetico”, visivo. È un “mezzo” tra i più eccitanti e i più condizionanti che gli attori, e con gli attori il regista, hanno o dovrebbero avere a disposizione. C’è una continua “corrispondenza” fra scena, oggetto e spazio e attore, parola, gesto, movimento.
L’una suggerisce qualcosa agli altri, gli altri “usano” e definiscono l’una.
Un lavoro, questo, che non siamo mai riusciti a fare come volevamo, Luciano, anche questo è chiaro.
Poiché la “scena” non può che “nascere” insieme all’azione drammatica, non può che nascere alle prove, giorno per giorno, modificata e modificante. La nostra lotta contro le abitudini antiche, il tempo e il denaro, è ancora precedente a questa concezione “dinamica” dello spettacolo teatrale: lo spettacolo che si fa, tutti insieme, sul palcoscenico. Noi lottiamo ancora per avere “pronta” la scena, gli ultimi giorni di prova, e questo è uno dei più grandi errori di fondo che dobbiamo ancora accettare. Da qui nasce, certamente, quella nostra apparente incertezza che ci porta a continue, ulteriori modificazioni anche nelle ultime ore di prova, col pubblico in sala, si potrebbe dire. È successo, a noi. Come siamo soli, davanti a questo problema!
Abbiamo superato lo stadio necessario, della “scenografia” pronta “il primo giorno di prova”, i costumi indossati “il primo giorno di prova” (e un tempo ci pareva questo il più grande miracolo possibile!), cioè tutto fatto, come al cinema, al primo giro di manovella della prima inquadratura, e non siamo arrivati alla “costruzione collettiva” dal primo giorno: uno spazio determinato, questo sì, e dentro ancora il vuoto, il presentimento di alcune possibilità indicative di alcune soluzioni concrete e basta. Anche con questo Galileo siamo arrivati allo spazio, e non è poco, e ci siamo arrivati con un “nostro” lavoro, diciamo solitario, a Venezia.
Ricordi il nostro arrivo, con l’acqua alta, con i nostri tavoli, le carte, i colori, il baule di libri?
Poi abbiamo preparato le stanze, con i nostri “altarini” di fotografie, di cose, pezzi di stoffa, pezzi di legno che forse non c’entrano niente con lo spettacolo da fare, ma che a noi servono come materiale “magico”, per richiamare da chissà quali misteriose lontananze immagini e sentimenti della materia.
Sai che pochi giorni fa Federico [Fellini], in macchina, mi confidava, come un segreto, che dentro alla sua borsa (una valigetta da dirigente industriale!) non teneva, come tutti credevano, fogli scritti, appunti, sceneggiature e altro. Ma tra fogli di carta, con strani disegni e parole, una specie di museo privato di cose. E aprendo la borsa nera, doveva stare attento che non uscisse tutto per terra: pezzi di stoffa, ritagli di giornali, uno specchietto, una calza, un nastro, alcune fotografie del Polo Nord. In un taxi sembravamo due ladri, o spacciatori di cartoline pornografiche o piazzisti che si scambiano il materiale o il campionario o la refurtiva. Come l’ho sentito vicino a noi, in quel momento, Federico!
E fatti i nostri altari, abbiamo incominciato a lavorare, trovando “un” ritmo. Ogni spettacolo ha il suo ritmo di lavoro. Alcuni si fanno di notte, altri alla mattina, altri passeggiando, altri stando al sole, anche in acqua: il Coriolano l’abbiamo fatto in gran parte in barca, ricordi? Persino, ecco un altro punto misterioso, il materiale da usare per fare gli schizzi e il bozzetto, non solo finale, anche intermedio. Questa è un’altra cosa “misteriosa”.
La tecnica che tu adoperi per una scena “non può” essere la stessa di un’altra.
Per questo Galileo tu hai scoperto innanzitutto la tecnica necessaria, quella giusta. Ed è già di per se stessa un’invenzione. Sui grandi fogli di cartone, hai steso due o tre strati successivi di carta velina e con un “tuo procedimento” li hai incorporati. Ne è uscita una superficie candida, lancinante, ma vibratile, lieve, giapponese, dicevamo. Su questa superficie, tu hai incominciato a lavorare con ancora del bianco ad acqua e matite, gessetti e altro carboncino.
Da qui è nato lo spazio del Galileo. Andavamo a dar da mangiare ai piccioni a mezzogiorno in punto, in piazza, nella nebbia e un poco di sole. Poi tornavamo a lavorare. La sera, davanti alle idiozie della televisione, ci “divertivamo”. Andavamo a letto e lì incominciavamo i nostri continui viaggi notturni, nella luce violenta delle lampade, sui tavoli. Una volta io arrivavo da te, un’altra tu da me, come due fantasmi, per farci delle “proposte”. Quante volte ti ho rubato di mano uno schizzo, per mettermelo con due puntine sul muro davanti al letto. Mi svegliavo e lo vedevo, mi addormentavo, e dormivo pensandoci su.
Sì, il nostro è stato sempre un lavoro strano, umano, tenero, infantile, come un gioco pericoloso, ma sempre gioco di infanzia e di amicizia, di umano, scambiato.
Così anche questo Galileo. Così lo spazio, l’involucro. Fu definito, e tornammo a Milano, felici.
Invece, subito dopo, incominciarono i drammi. Io vedevo e vedrò sempre la finestra di casa tua con la betulla stenta davanti, sempre illuminata a qualsiasi ora della notte e del giorno.
Non eri ancora arrivato a tenere accesa una candela all’angolo del tavolo, come hai fatto poi. Io te ne ho chiesto il perché, e tu mi hai risposto: «Perché mi sento meno solo, mi fa compagnia, non trovi?». La candela ardeva, muovendo la fiamma, e tu ti sentivi in compagnia, nelle tue lunghe, lunghe ore di lavoro solitario!
Nessuno le conosce queste cose e servirebbe, poi, se le conoscessero? Le ore che tu, nella notte fonda, hai continuato, come un calligrafo o un amanuense, a grattare e disegnare per rigrattare ancora con la lametta della barba il segno che non volevi più. Tornati a Milano, dicevo, non siamo più riusciti ad andare avanti. Fino a ieri. Ieri, con uno sforzo tremendo, in una nottata fino alle sei, abbiamo chiuso il problema.
Di’ un po’, ma non abbiamo anche fatto fuori una bottiglia di cognac che siamo riusciti a scovare nel cosiddetto bar, chiuso previdentemente a chiave dalla tua consorte?
Ma quello che voglio dirti e dirmi è che l’esserci trovati bloccati così non è un senso di impotenza, ma un segno di maturità. Proprio quel nuovo concetto di “teatro da fare” insieme, rappresentato oggi dal nostro teatro, qui diventa quasi una preclusione. Bastava montare insieme lo spazio preparato a Venezia e avere tempo, pazienza e mezzi per incominciare a muoverci in “quello spazio” e tu a trarne le conclusioni, graficamente, suggerendo soluzioni nuove innestate sulle vecchie e così via. La tensione, le difficoltà, la disperazione del blocco sono nate dal fatto che abbiamo dovuto, contro noi stessi, fare di nuovo lo sforzo tutto da soli, saltando un enorme lavoro diluito nel tempo e collettivo per dare la forma definitiva al Galileo.
E pure così, vedrai, Luciano, quante modificazioni introdurremo ancora! Come saremo maledetti, come saremo accusati di “insana dilapidazione”. Tu ti prenderai le maledizioni di Paolo per “i ritardi”, il mio nervosismo, ci prenderemo tutto sulle spalle e avanti, non credendo più a questo modo di fare teatro e impotenti a imporne un altro, perché troppo “lontano” dalle possibilità attuali del teatro. Lavoriamo bene, però, in difesa e retroguardia. Perché? È una domanda che ci continuiamo a fare. Intorno, intanto, crolla quel tanto di “amore” per l’artigianato che è la nostra forza e uno dei nostri amori.
Pensa all’amore di Brecht per l’oggetto: «Amo gli oggetti consunti da tanto uso ecc. ecc.»!
Fra pochi anni, non avremo più nessuno, nessuno che sa dipingere con le tecniche diverse, nessuno che sa costruire pareti enormi e lievi come vele, telai incredibili che si ergono nello spazio, nessuno che tesse, che cuce, che taglia, nessuno che fa scarpe e cappelli a mano, sapientemente, amorevolmente. Come pensare e ipotizzare questo “teatro umano” in una società che corre verso la grande meccanizzazione collettiva?
Quante volte ci siamo sentiti dire da qualcuno: «Non c’è più nessuno che tagli pantaloni, non parliamo dei gilet, che sappia cucire i bottoni, che faccia le asole, persino». E le favolose e semplici tecniche della grande scuola della scenografia all’italiana, quella che vedevamo ancora usata, sempre peggio e fuori storia, nei nostri primissimi anni di teatro?
Per noi che non abbiamo mai amato, né mai ameremo, le complicazioni meccaniche dei tripli palcoscenici girevoli che scendono e salgono, dei palcoscenici che oscillano e si inclinano (senza che vengano poi adoperati mai), delle platee che ruotano su se stesse e via dicendo, noi che crediamo a un teatro chiaro e semplice anche nelle sue formulazioni tecniche (e qui ancora il nostro vecchio maestro B.B. fa testo, perché questo concetto di semplicità e chiarezza è suo e non degli scenografi che hanno lavorato con lui), il futuro si preannuncia sempre più difficile. E non vediamo il modo per fermare questo vizio della storia, non lo sviluppo armonico della storia.
Ho divagato, ma qualche volta dobbiamo parlare anche un po’ di altro che “di uno spettacolo”. Non abbiamo mai il tempo di farlo.
Torniamo al Galileo. La soluzione dei piccoli modelli architettonici, in scala minore, ridotta, gli spaccati di architettura, come se “fossero studi scientifici” per costruire, è la più giusta e la più comprensibile. In un lavoro che parla della scienza è giusto che anche le indicazioni scenografiche di luogo siano “scientifiche” cioè studi, bozzetti di architettura, in bianco e nero o grigio e bianco e nero. Gli uomini sono quasi più grandi, anzi sono senz’altro più grandi delle architetture, piazzate come disegni nei punti necessari.
Così il palazzo dei Medici in Firenze, come esempio, è un rettangolo di un “bozzetto” rappresentativo del palazzo stesso, che poggia su piccole ruote e viene spinto in scena. Davanti a esso siedono su una panca, questa più grande del normale, Galileo e la figlia, in attesa del Granduca. I rapporti sono esatti. Tutto ciò ci lascia una grande libertà, quella che cerchiamo per sistemare spazialmente queste “cose” come sarà più necessario, alle prove. Forse siamo anche riusciti a salvare un poco il concetto di un teatro “in movimento” progressivo.
La scena del carnevale, in mezzo a una prospettiva all’italiana di casette povere, e quell’altalena vera nel fondo, più grande delle case, coi bambini più grandi dei tetti, e il gioco dei poveri nel centro, con questa inversione di rapporto, sarà, io credo, illuminante, razionalmente e poeticamente.
Domani affronteremo il problema dei costumi. Altre domande, allora, ricominceranno a starci davanti: domande di fondo, sulla “funzione del costume”, sulla “necessità del costume”. E se, per la “scenografia”, il lavoro diretto delle prove vive ci è apparso sempre determinante, anche non riuscendo ad affrontarlo che in una sua minima percentuale, per il “costume” questo lavoro è del tutto indispensabile.
Mi domando come sia stato un tempo possibile pensare al costume di teatro come a un qualcosa di “precostituito”, un qualcosa che l’attore indossa “a un certo momento” (molto tardi, di solito) delle sue prove per presentarsi subito al pubblico! La funzione del costume è fondamentale per la costruzione del personaggio, sia di tipo realistico che di tipo epico (non c’è l’uno senza l’altro, vorrei dire), esso nasce da una serie di “reazioni a catena” tra costume e attore, tra gesto e particolari del costume: una manica troppo larga o stretta, o troppo lunga o corta, può modificare la proiezione scenica di un personaggio, richiedere all’attore un cambiamento di atteggiamento che a sua volta porta all’invenzione-costruzione di altri mutamenti del costume e dei suoi particolari e così via.
A un certo punto, questo continuo gioco di rimando della palla deve chiudersi, come a un certo punto si chiude il procedimento dialettico tra attori, regista e testo e spettacolo, per diventare “lo spettacolo”, un tutto unico che entra in dialettica con il pubblico. È una scelta che non può non compiersi a un certo momento, ma che, pur chiudendo un processo, entro certi limiti, lo lascia sempre aperto al futuro.
Sarà sempre possibile (anzi dovrebbe essere necessario), nel corso delle recite, riprendere il lavoro, sulle reazioni del pubblico e sulle esperienze dell’interprete a contatto con il pubblico, e portare avanti il processo che, in sostanza, non ha mai una fine. È la vita, sempre in sviluppo e movimento!
Mi accorgo, caro Luciano, che sto tratteggiando sempre di più quel profilo di un teatro “in progresso”, che noi non potremo fare mai e che rimarrà, nonostante tutti gli sforzi, solo un lontanissimo, non teorico ma concreto punto di arrivo di tanto lavoro, in questi anni.
Se ci si mette a guardare quello che facciamo sotto questo punto di vista, non può non prenderci l’angoscia e un senso del troppo poco che l’avventura del teatro contemporaneo concede a coloro che (non a chiacchiere) vedono uno sviluppo metodologico completamente diverso da quello attuale. Io credo veramente che il teatro contemporaneo abbia bisogno sempre più di una nuova metodologia del lavoro di teatro, non sulla strada di Stanislavskij – Stanislavskij è qui una sicura tappa di passaggio – ma su quella di Brecht – parlo di Brecht teorico della regia, del teatro che si fa – e che l’accettazione del lavoro di teatro come “lavoro di ricerca” aperto e continuo sia l’unica possibile oggi.
Voglio finire questo discorso che ci porterebbe e ci ha portato, forse, molto lontano, ma che ogni tanto dobbiamo però fare, che io faccio a me stesso sempre, con una domanda: cosa possiamo fare, noi teatranti, convinti che il domani del “lavoro di teatro” debba essere diverso? Che per essere diverso debba essere “guidato”, in qualche modo, verso questo nuovo traguardo, sapendo ogni giorno, constatando ogni giorno che il modo, tempo, mezzi, insomma che tutto il “teatro” non si preoccupa di questa problematica? Dirò di più, che è “contro” questa problematica? Viene fatto di dire: niente. In realtà, noi continuiamo a fare qualcosa. E continueremo.
E allora preparati a sopportare insieme a me, ancora una volta, l’accusa da parte anche dei nostri migliori amici, di essere un perfezionista, di spostare un bottone di dieci millimetri tre volte per follia, di considerare maniacalmente uno scarto di dieci centimetri un delitto, di lottare per un’affermazione o una forma, salvo poi modificarla, a ragion veduta, due giorni dopo. Preparati assieme a me a sentirti dire di essere un pazzo, un dilapidatore, un uomo magari che “non sa quello che vuole”. Esattamente come, poiché parliamo di Galileo, Galileo. Non è Galileo un uomo che “non sa quello che vuole” quando cerca il profilo di Venere, e propone “ipotesi” da verificare quando spinge all’esperimento il frate credente con il ghiaccio nella vasca piena d’acqua? Il fatto è, però, che alla fine il ghiaccio galleggia e non va a fondo come Aristotele diceva!
Il nostro perfezionismo conclamato dagli idioti o pigri o indifferenti, il nostro mutare e mutare ancora fino alla fine (anche se fine non c’è) potrebbe forse essere “lo spirito di ricerca continua” della scienza, il metodo degli sperimentatori scientifici che così procedono.
Proprio a nessuno è venuto mai il sospetto che il nostro modo di “fare teatro”, anche così ad accenni, sia un esempio, un disperato tentativo di realizzare “un lavoro di teatro” all’altezza della nostra era scientifica, all’altezza delle conquiste della metodologia dialettica, e che in definitiva quello di Brecht, quando ha chiamato tutta la sua opera Versuche, non era un vezzo?
Ti abbraccio
Giorgio
Lettera a Luciano Damiani, dicembre 1962, pubblicata in Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Feltrinelli, Milano, 1974