Strehler e Goldoni

In nove titoli, la riscoperta di un autore

Il mio rapporto con Goldoni è in fondo un rapporto privilegiato: l’ho amato quando era difficile da amare, l’ho fatto quando era difficilissimo da fare.
Giorgio Strehler

A partire dalla folgorazione che lo colpisce assistendo, da ragazzo, una sera d’estate, a Una delle ultime sere di carnovale, Giorgio Strehler lega a doppio filo la sua carriera teatrale ai lavori dell’autore veneziano. Dall’omaggio alla Commedia dell’Arte di Arlecchino servitore di due padroni, messo in scena in dieci diverse edizioni a cominciare dal 1947, fino al grandioso progetto incompiuto dei Mémoires. Un Goldoni mai visto, un Settecento moderno e inedito, dove i vezzi e le pose della tradizione lasciano il posto al realismo, malinconico e quasi romantico nella Trilogia della villeggiatura, popolare e umanissimo nelle Baruffe chiozzotte e nel Campiello.

Strehler ne parla

La mia battaglia per Carlo Goldoni

Sono stato, insieme con Visconti, il primo regista italiano che si è occupato profondamente dell’opera di Carlo Goldoni, che ho sempre considerato come un autore fondamentale della nostra letteratura e del nostro teatro. Il primo lavoro che ho fatto è stato quello di ottenere che il pubblico accettasse un autore fino ad allora assolutamente proibito e considerato un classico noiosissimo, che non avrebbe richiamato spettatori a teatro.
Il secondo lavoro è stato quello di cercare umilmente, nei primi anni soprattutto, di seguire lo sviluppo della drammaturgia goldoniana non con dei trattati, degli studi o degli articoli, ma seguendo con degli spettacoli il cammino della grande riforma goldoniana, dal teatro – diciamo – delle maschere al grande teatro realistico del Goldoni in dialetto o in lingua veneta. È stato un lavoro progressivo che ha portato alla rappresentazione di un certo numero di opere, quasi come una cronologia storica, per arrivare poi, a un certo momento, alla Trilogia della villeggiatura, che era allora quasi sconosciuta. Questo è stato l’iter che ho seguito, e devo dire che il mio lavoro, insieme a quello di altri che poi si sono, in un certo senso, anche un po’ accodati, mi ha dato la gioia culturale di vedere Goldoni di nuovo ritornare come un autore normale, naturale, nel teatro italiano, come dev’essere.
[…] Un’opera che ho sempre davanti è Una delle ultime sere di carnovale, ci pensavo già da quando l’ha fatta Squarzina [nel 1968, ndr], come già penso del resto che non potrei non fare I rusteghi o altro che non voglio anticipare, ma devo ammettere che il mio rapporto con Goldoni è in fondo un rapporto privilegiato. Io l’ho amato quando era difficile da amare, l’ho fatto quando era difficilissimo da fare. Quando Visconti faceva La locandiera [nel 1952, ndr], c’era il direttore del teatro che diceva: «Ma l’è matt, quel Luchino, l’è matt… Il Goldoni, il Goldini, il Goldetti ma cus’è sta’ roba chi». Il clima era quello, come se oggi si volesse dimostrare che Alfieri è un grande trageda; nel ‘47 era così per Goldoni ed era una questione di dovere nazionale, come intellettuale italiano, fare qualcosa perché questo fatto non si verificasse. E devo dire che non si è più verificato, questo sì. Per il resto, ci sono delle affinità profonde di certe cadenze tra me e Goldoni, però è il Goldoni osservatore della vita degli uomini, è il Goldoni cantore delle piccole cose “vere” della vita e, in quanto vere, grandi, che mi ha sempre colpito e affascinato. Per esempio, questa sua capacità di farle lievitare in un’atmosfera poetica che non fosse quella di un grigio e semplice e puro realismo. Non c’è niente di meno realistico del Campiello e non c’è nulla di più realistico del Campiello, come non c’è niente di meno realistico di Una delle ultime sere di carnovale, e nel medesimo tempo non c’è nulla di più vero e più esatto dal punto di vista psicologico.
È come Čechov, o diciamo che Čechov è come Goldoni: sono quei grandi che si trovano nel cammino della storia del teatro e spiegano le verità dell’uomo attraverso le loro metafore, che non sono mai la copia esatta del mondo ma sono la metafora del mondo.

Intervista di Fabio Battistini, “Hystrio”, gennaio/marzo 1989

Folgorato dal teatro grazie a Goldoni

Quando ero giovane non avevo una particolare predisposizione per il teatro. Ero più portato per la musica. Ma a un certo momento, in una certa circostanza della mia vita, mi sono trovato, un’estate, ad andare a teatro. Prima andavo sempre al cinema e ai concerti, era la prima volta che andavo a teatro e non sapevo neppure che cosa rappresentassero. Ho visto degli attori vestiti con degli abiti del Settecento che recitavano in un certo modo, in un dialetto, il veneziano, che conoscevano molto bene. Ma che peraltro facevano delle azioni che non capivo bene. E così, al primo atto ero ancora perplesso, al secondo ho cominciato ad appassionarmi a quello che vedevo, e al terzo atto ero in lacrime e alla fine mi resi conto che la commedia che avevo visto era Una delle ultime sere di carnovale di Goldoni, un lavoro che amo particolarmente e che giustificava la mia emozione. Naturalmente, da quel momento, e con un certo fanatismo tipico della giovinezza, tutte le sere andavo a teatro. Nel corso di quell’estate continuai ad assistere a tutti gli spettacoli. Non andai né al mare né in montagna con la mia famiglia, ma restai a Milano per vedere quello che davano e, alla fine di quell’estate, mi iscrissi alla scuola d’arte drammatica di Milano e cominciai i primi corsi di quella scuola per attori.

Riportato da Francesca Pini, Il tempo di una vita. Conversazione con Giorgio Strehler, Genova, De Ferrari, 2006

Una specie di fratello maggiore

A Goldoni devo, sul filo degli anni, una specie di tenerezza che è prima sua che mia. In Goldoni ho sempre visto una grande luce di bontà non pacificante, piuttosto critica e persino, a suo modo, severa, qualche volta quasi impietosa – non è stato mai un poeta comodo, Goldoni! – ma sempre infinitamente umana. Goldoni è stato una specie di fratello maggiore col quale ho parlato tante sere, in una stanza, mangiando qualcosa e bevendo un po’ di vino e giocando spesso a carte: a lui le carte sono sempre piaciute. Mi ha parlato degli uomini, delle loro pene, dei piccoli e grandi vizi, con una specie di malizia dolce e corrosiva al tempo stesso. Mi ha sempre aiutato a cercare il mondo, l’uomo, e a guardarlo con curiosità, amore e ironia in tanto suo affanno. Mi ha insegnato un amore per il teatro implacabile, il coraggio di lavorare per il teatro senza riserve, fino all’ultimo. Mi ha insegnato ad amare la vita del teatro e oltre il teatro.

Shakespeare, Goldoni, Brecht, a cura di Giovanni Soresi, Milano, Piccolo Teatro, 1984

Brecht e Goldoni

Brecht e Goldoni rappresentano due punti fermi nell’ambito della mia ricerca teatrale. Per quelli che sono i rapporti con la società del loro tempo, il senso del loro teatro nell’ambito dei problemi che il loro tempo proponeva, essi mi appaiono – se così posso dire – come una specie di punto di partenza e il punto di arrivo, il principio e la fine, l’alfa e l’omega di quel capitolo della nostra storia che si svolge all’insegna dell’egemonia borghese. Per questo essi sono, nello stesso tempo, vicini e lontani.
Postulato di questa ricerca è l’affermazione che nei grandi momenti della sua storia (che coincidono sempre con i grandi momenti della Storia), allorché il teatro è chiamato a significare l’urgenza di nuovi temi politici e sociali, questa presa di coscienza e la conseguente nascita di un nuovo umanesimo trovano nel realismo il loro linguaggio più consono e naturale. Ma questo linguaggio realistico non è “unico”, non è un modo unico di esprimersi. Esso, anzi, può assumere formulazioni e formalismi diversi, a seconda della situazione contingente in cui viene a trovarsi; ma comune a tutte le sue formulazioni sarà sempre la metodologia del suo approccio con la realtà; la direzione in cui sollecita l’evoluzione sociale, il significato umanistico e storicistico del suo assumere “l’uomo politico” a misura di tutte le cose.
Di alcune analogie – senza troppo distinguere tra le semplici curiosità e le spie di significazioni più profonde – dirò brevemente.

L’esordio

Due tra i maggiori rivoluzionari della storia del teatro prendono le mosse da un’adesione al linguaggio preesistente, che nulla lascia prevedere della rivoluzione successiva. Brecht parte dall’espressionismo, Goldoni esordisce con una Amalasunta in tutto inquadrata nella dozzinale produzione tragica del tempo. Questa partenza ha un analogo significato metodologico: la riforma esige riflessione, maturità, tempismo; non ignora il passato, ma vi si fonda. Non brucia le tappe: matura a poco a poco, riassumendo nel proprio sviluppo quello della disciplina stessa che intende riformare.

La cornice

Per ambedue, la cornice è una società còlta in un momento di travaglio: per Goldoni il passaggio da un ordinamento e un costume aristocratici a un ordinamento e un costume borghesi; per Brecht il momento in cui il liberalismo emerso dall’Ottocento affronta nel nostro secolo la sua prima violenta crisi. Ma soprattutto si tratta di eventi in anticipo sulla tabella di marcia europea: per Goldoni, perché la Venezia del suo tempo realizza – sia pure su basi mercantili e non ancora industriali – la fondazione di una società borghese ante litteram, per Brecht perché la sua generazione è la prima a dover affrontare la scelta inattesa e drammatica tra libertà e dittatura, nei termini estremi e violenti in cui si è storicamente proposta.

L’ambientazione estraniante

Una mitica Cina si offre a Brecht come cornice ideale per una analisi di comportamenti, non corruttibile da elementi accessori che potrebbero sviare la capacità critica e analitica del pubblico, portarlo a esercitare una (anche) inconscia funzione censoria sui significati che da quell’analisi emergono. Anche Goldoni afferma di dover superare il pericolo di un’automatica censura – “rimozione”, potremmo dire più modernamente – ove si arrischi a diagnosi troppo sgradite per il suo pubblico: espressamente dichiara di usare a questo scopo ambientazioni che gli permettano un più rigoroso discorso, e colloca una delle sue più critiche commedie – Le femmine puntigliose – in una Palermo non meno lontana e mitica della Cina di Brecht, e in cui è consentita la stessa analisi rigorosa, lo stesso discorso critico ed estraniante dei comportamenti sociali che gli interessano.

Senso sovranazionale

Ovviamente il senso sovranazionale è diverso nei modi, ma anche equivalente in Goldoni e in Brecht – direi – per significato metodologico e ideologico. Nel caso di Brecht è testimoniato tra l’altro – come indizi accessori, ma non irrilevanti – dalla varia provenienza nazionale delle fonti ispiratrici, dalla varietà dell’ambientazione, dalla lezione che è lezione di dinamica sociale evidentemente non limitata alla nazione tedesca. Nel caso di Goldoni – che pure pare così legato al proprio ambiente veneziano – concorre a determinare il senso europeo, classista e perciò stesso sovranazionale, la particolare condizione di Venezia, e quell’ascesa della nuova borghesia mercantile con cui Goldoni identificava la propria ideologia morale e politica. Condizione di Venezia simile a quella delle città della lega anseatica, prima fra tutte Amburgo, dove non a caso operò Gotthold Ephraim Lessing, un altro dei fondatori del teatro borghese, assieme al parigino Diderot – che non a caso si ispirò a Goldoni –, al londinese Lillo, autore di quel Mercante di Londra che segna la nascita del teatro borghese in Inghilterra. Proprio là dove un secolo prima Shakespeare aveva scritto il Mercante di Venezia: il cerchio pare completarsi in questo rapido giro d’Europa da Venezia a Venezia con una serie di coincidenze che – come sempre nella storia – sono frutto di ben altro che del caso o della bizzarria.

Gli antagonisti

L’analogia prosegue, anche se – come sempre – nella diversità della cornice e dei modi. Antagonisti di Brecht furono il teatro dell’espressionismo individualistico, l’esasperato ed esteriore naturalismo, la presuntuosa ed evasiva verbosità della cultura estetizzante. Antagonisti del Goldoni furono del pari l’individualismo arbitrario delle invenzioni del Gozzi, la invalsa volgarità delle maschere – Goldoni non uccise le commedie dell’Arte, le trovò ormai morenti –, l’estetismo frivolo del melodramma metastasiano e degli stanchi epigoni italiani di Racine e Corneille. Strumenti della polemica furono sempre per ambedue il confronto con la realtà, la chiarezza diagnostica, la capacità di analisi, la scientificità del raccontare fatti e significati di fatti: una scientificità che è analisi semplicemente “onesta” del tessuto sociale. E coraggio delle conclusioni.

E in tema di conclusione, un’ultima analogia emerge se appena liberiamo nel Goldoni il nucleo drammaturgico essenziale dalle sovrastrutture imposte dagli usi e dalle convenzioni del suo tempo. Un singolare paragone può essere fatto sulla metodologia che conduce alla conclusione finale nientemeno di L’eccezione e la regola di Brecht e di una delle commedie goldoniane più interessanti da un punto di vista ideologico: la Pamela, storia di una virtuosa fanciulla di umili origini che può sposare un nobile cavaliere solo dopo che una puntuale agnizione prova che anch’essa è di sangue blu. La Pamela è tratta da un romanzo dell’inglese Richardson e, tra il 1740 e il 1750, ebbe innumerevoli riduzioni teatrali in tutta Europa a opera, fra gli altri, di Voltaire e di La Chaussée, a prova dell’importanza emblematica che il suo tema ebbe per la cultura dell’Illuminismo e per i rapporti tra la nobiltà e la nascente classe borghese.

L’eccezione e la regola – come è noto – termina con una conclusione a sorpresa: un rovesciamento dialettico del ragionamento e della conclusione preparata dal processo e logicamente attesi dal pubblico. Nella Pamela, l’agnizione finale che il Goldoni conserva – un poco per rispetto all’originale inglese, un poco per ossequio a quel lieto fine a cui tante volte si piega con malcelata insofferenza lo stesso Molière – non può far velo a quella che è la conclusione vera e ragionata della storia: conclusione che è anche qui il capovolgimento dialettico, improvviso e sorprendente, della conclusione più logica e attesa, e cioè del matrimonio tra Pamela e il cavaliere, in nome di quella uguaglianza che l’Illuminismo predicava al di là dei blasoni e dei vantaggi della nascita. Questo matrimonio è rifiutato da Goldoni: la conclusione arriva a sorpresa, dopo che tutto il testo riecheggia i princìpi illuministici dell’eguaglianza fra gli uomini, dell’importanza del “merito” rispetto ai “titoli”, delle virtù umane e morali rispetto a quelle fortune che possono essere frutto del caso, della terrena ingiustizia e via dicendo. La sentenza del Goldoni pare pronunciata dal giudice di Brecht: il matrimonio non s’ha da fare, perché non è vero che nella Venezia o nella Londra del Settecento il merito individuale superi le differenze di classe, perché i princìpi dell’Illuminismo, per quanto nobili e suggestivi, non trovano riscontro nella pratica, perché anche per Goldoni – in ultima analisi – il mondo vigente non è quello della libertà, ma quello della necessità.

Questi raffronti, che possono anche sembrare quasi paradossali – e che sono di carattere per lo più metodologico – introducono alla fine l’analogia più ardua e affascinante: quella cioè del carattere fondamentalmente e inequivocabilmente realistico della cifra stilistica del teatro goldoniano e brechtiano. Mi limiterei a definire l’espressione “cifra stilistica” come il “tono”, il “carattere”, il “colore” del ghestus, a sua volta inteso come insieme di parola, ritmo, mimica e immagine: la cellula, insomma, fondamentale del fatto teatrale realizzato sul palcoscenico. È il “tipico” punto di partenza e di arrivo di ogni arte realistica, quella tipicità schematica che illustra meglio d’ogni altra il trasferimento nel mondo dell’arte della realtà dialettica della vita. I grandi poeti fuori del teatro e nel teatro hanno in sommo grado questa capacità e il lontano Goldoni – spesso poco capito e poco rettamente interpretato – e il vicino Brecht – spesso troppo rinchiuso nei limiti di un “teatro politico” e corredato dunque di infantilismo e di schematismo – non sfuggono a questa legge.

Li accomuna qualcosa che va al di là del modulo estetico o stilistico: la viva, profonda curiosità e capacità di “fare teatro”, legata alla molteplice realtà della vita che intorno a loro passa, e di concepire il “teatro” non come luogo immobile, ma come luogo di una dinamica storica che si muove con personaggi totalmente umani e perciò stesso ricchi, contraddittori, veri, che offrono al pubblico una specie di astratto modello del vivere ed essere in rapporto con i propri simili, nella parte di storia che a ciascuno è dato di vivere.

È quest’arte, questa visione dell’arte, il patrimonio delle nostre rivolte europee che si sta facendo – nonostante tutto – sempre più una cosa sola. A questo dobbiamo tendere: un’arte umana in un mondo più umano, più giusto e più solidale.

Ogni gesto teatrale – così come ogni “evento” in poesia o nelle arti figurative – si compone di notazioni che possiamo distinguere sotto il profilo che qui ci interessa, a seconda del loro significato o semplicemente e restrittivamente individualistico, o esemplare di significati generali astrattamente affermati. Tutta la storia della letteratura, e dunque anche del teatro, può essere rinarrata seguendo il prevalere dell’uno o dell’altro aspetto nel personaggio, nella scenografia, nella scrittura drammaturgica; e potremmo distinguere un massimo di notazioni particolaristiche nella letteratura del naturalismo, e un massimo invece di notazioni generalizzanti nella letteratura del simbolismo; nel primo caso il valore gestuale dell’evento teatrale corre il rischio di non sollevarsi al di sopra del particolare caso che illustra, di rimanere legato alla cronaca e di non acquistare utili significazioni didascaliche; nel secondo caso il calore puramente simbolico corre il rischio di astrarsi da ogni riconoscibile e tangibile realtà e di risultare – per eccesso di pretese – altrettanto sterile e inutilizzabile da un punto di vista conoscitivo e pratico.

Nell’arco delle possibilità che nascono invece dalla fusione e dall’accordo di questi contrapposti elementi si pone il concetto eminentemente realistico del “tipico”: tipici sono il personaggio, la battuta drammaturgica, la situazione teatrale, la componente scenografica, che fanno leva su una riconoscibile realtà, anche documentaria, per assumere più vaste significazioni sociali e storiche; tipico è il personaggio che né si esaurisce nelle connotazioni individualistiche, personali, nei tic nervosi del caso limite, né si pone al di là del documento spogliandosi di ogni tratto individualistico per assumere il senso di un postulato metastorico. Il passaggio dall’uno all’altro estremo, questa altalena entro i poli dell’esasperazione naturalistica e della rarefazione simbolista, è sempre manifestazione di crisi, di corruzione di una cultura, di stanchezza ideologica, di smarrimento di accordo tra individuo e società. Sempre, quando può sembrare che la crisi raggiunga limiti intollerabili, qualcosa avviene per cui – sulla base di un rinnovamento della ideologia sociale – anche la letteratura restaura l’equa nozione del tipico, la voce e lo stile, la “morale” del realismo; che altro non è che il ritrovamento di un equilibrio dell’altalena che minacciava di andare troppo in là e – sul piano storico – l’affermazione di nuove e più attuali verità, di una nuova fiducia, la scoperta di un nuovo terreno su cui porre saldamente piedi e fondamenta.

La storia delle riforme che Goldoni e Brecht – nelle modalità caratteristiche e consone ai tempi loro – hanno operato sul teatro, non è altro che la faticosa affermazione di un rinnovato realismo, la restaurazione della nozione del “tipico”. Questa conquista si realizza con un procedimento dialettico che prende le mosse, come abbiamo visto, dalla situazione preesistente, la nega rigorosamente, e costruisce sulla tabula rasa così creata un nuovo e giusto equilibrio, un nuovo punto d’appoggio. Sotto questo profilo il procedimento goldoniano, che obbliga le sfrenate maschere all’intima contraddizione di un testo scritto e precisamente formulato, corrisponde perfettamente al passaggio brechtiano dall’anarchia individualistica dell’espressionismo al rigore epico (e cioè narrativo) dei drammi didascalici; in ambedue i casi si tratta di passaggi intermedi, limitativi del discorso, o – meglio – non ancora esplicativi di tutte le sue possibilità: quando Goldoni spoglia le maschere dei loro costumi e ne ritrova l’equivalente nella realtà sociale del suo tempo, e fa di Arlecchino non più “il” servo in astratto ma “un” servo, o – per l’appunto – il tipico servo del suo mondo, e di Pantalone non più “il” mercante, ma “un” mercante con nome e cognome concreti, anche Brecht supera la schematicità didascalica del Lehrstück per ridare ai personaggi, e a ogni altra componente del fatto teatrale, quella più completa struttura che nasce appunto dalla fusione di connotazioni individuali, personali, psicologiche e dalla possibilità di ravvisare in quelle connotazioni precisi significati e riferimenti a più ampie realtà storiche e sociali.

Quel “teatro dialettico”, che alcuni scritti teorici e vari testi di Brecht adombrano dopo il 1940, è essenzialmente in questa affermazione del concetto di “tipico”, in questa restaurazione di un’analoga riforma; essa si accompagna a una presa di coscienza morale e sociale che appartiene al comune patrimonio dei tempi loro: due verità che stanno tra loro – se così vogliamo – come Einstein sta a Newton nell’ambito delle scienze fisiche; e che hanno in comune quel carattere metodologico, quel rapporto con la società, quella “funzione” rivendicata all’arte, che abbiamo cercato di definire essenzialmente come: affermazione del realismo. Realismo per l’affermazione dell’umano.

Intervento letto l’11 novembre 1972 ad Amburgo, in occasione del conferimento dell’Hansischer Goethe-Preis; pubblicato in Giorgio Strehler, Per un teatro umano. Pensieri scritti, parlati e attuati, a cura di Sinah Kessler, Milano, Feltrinelli, 1974

Goldoni, tutto genio e regolatezza

Gli anniversari della nascita o della morte dei grandi personaggi servono spesso a dare uno scossone alla coscienza storica, che dimentica o trascura coloro che molto hanno dato al patrimonio artistico e spirituale del mondo. Così il Bicentenario di Carlo Goldoni può essere un’occasione non tanto per celebrare un grande autore drammatico, per renderlo ancora più simile a un monumento, chiuso in un sacrario lontano dalla vita, ma per ripensarlo con maggiore attenzione critica come scrittore di teatro, teorico della scena e uomo del suo tempo, per molto tempo poco compreso nella sua realtà di europeo, che seppe vivere l’avventura di una repubblica e di un mondo che andava scomparendo alle soglie di un’altra Repubblica e di un altro mondo – quello nato dalla Rivoluzione francese – che stava nascendo.
A questa “riscoperta” di un Goldoni autore e uomo, per una volta il teatro è arrivato prima degli storici del teatro, prima degli intellettuali. C’è arrivato con un atto che era – allo stesso tempo – d’amore e di conoscenza, attraverso gli spettacoli di Luchino Visconti e i miei e poi, più tardi, con quelli di Squarzina, De Bosio, Missiroli, Ronconi. Penso che sia stato giusto così.
Penso che fosse giusto che, proprio dal palcoscenico sul quale si è consumata o sublimata la vita di Goldoni, partisse questo movimento che gli ha ridato l’interesse della cultura italiana (ma non solo) e, soprattutto, l’interesse del pubblico che oggi non ha più timore di venire a vedere una sua opera.
Un pubblico che ha ignorato a lungo chi era Goldoni o, se lo sapeva, lo associava a dei fastidiosi ricordi scolastici, a qualche recita per studenti. Perché Goldoni proprio non c’era più nella letteratura italiana e, se c’era, era ricordato come un omino un po’ allegro, sorridente, che aveva scritto qualche commedia, ma che non era un granché.
È indubbio comunque che, al di là di tutto, di ogni grande autore siamo portati a dare una lettura personale che, naturalmente, non rinnega né la storia del teatro, né la storia di una vita.
In questo senso io ho un “mio” Goldoni: un uomo vissuto nel teatro e per il teatro, che però ha saputo tenere ininterrottamente vivo il legame profondo che unisce la vera teatralità alla vita. Penso alle Baruffe chiozzotte, che ho appena rimesse in scena, penso al Campiello, di cui sto per iniziare le prove: storie semplici, reali, possibili, concrete, nelle quali egli rappresenta i rapporti tra esseri della vita, capiti dal di dentro. Con quel tanto di contrastante, di aggressivo, di ambiguo, che tutto ciò comporta, ma riuscendo sempre a commuovere, a farne una metafora del mondo come solo la grande poesia sa fare. Il mio Goldoni è un uomo fondamentalmente umano, disarmato di fronte al male, al buio, alla miseria interiore che tanto spesso – ieri ma anche oggi – il teatro trascina con sé come una condanna. Un uomo che ha vissuto tutto “dentro” la realtà del suo secolo, in quella dolcezza non priva di punte crude, molto spesso improvvida di un tempo storico che stava per chiudersi per sempre.
Così ci si accorge che il sorriso umano di Goldoni è spesso un sorriso non indulgente ma critico, non soltanto sui caratteri, sui vizi degli uomini, ma critico più “dentro”, dunque sui modi di comportamento di una società in movimento, sul gioco delle classi – sia su quelle che uscivano dalla storia sia su quelle che vi entravano. «Le due guide della vita» scrive Goldoni «le ho studiate sui miei due libri: il Mondo e il Teatro».
Un’affermazione che dovrebbe bastare per dare un senso non equivoco alla storia di un uomo che, a distanza di duecento anni, siamo ancora costretti a scoprire nella sua verità in mezzo a innumerevoli malintesi biografici, critici e letterari. Il Mondo di Goldoni è fatto di uomini, di vita concreta, di rapporti fra creature umane e il mondo reale, in una coralità di azioni e reazioni in movimento. Il Teatro, invece, è la scelta di una vocazione d’arte, di una volontà di comunicare con il mondo, perché per lui, veramente, il Mondo e il Teatro hanno costituito un’unità di intenti e di opere che rende tanta parte delle sue commedie un qualcosa di straordinario, perché trasfigura il reale in una misura poetica dal carattere spesso inimitabile, in un brivido lirico di amore per certe verità dell’uomo, che compongono l’immagine più profonda del teatro goldoniano. Così quello che un tempo è sembrato gioco, musica e divertimento oggi diventa misura di stile, testimonianza del tempo e del costume, ricerca e scoperta di un’umanità che vive i suoi drammi insieme al sorriso e alla tenerezza, in un alternarsi di luci e di ombre, di parole e di silenzio, che sorprende chi pensa a un Goldoni rinchiuso nel suo cliché del comico e del ridicolo a tutti i costi.
La storia di Goldoni, della sua vita, è la storia di un uomo di teatro. Storia pubblica, dunque. Vita vista quasi come spettacolo giorno per giorno e trasformata mimeticamente in spettacolo. E, allo stesso tempo, storia molto segreta, piena d’ombra umana, con molti drammi veri. Storia anche di sconfitte, piante nel silenzio, di vittorie che danno poca gioia, tanto sono effimere. Il Goldoni della giovinezza, della maturità e della vecchiaia che starà al centro dei nostri Mémoires, le sue memorie, alle quali dedicheremo gran parte del nostro lavoro, come in un vero e proprio work in progress, a partire dalla prossima primavera. E la verità che vorrei ne risultasse è che l’uomo di teatro, chiunque egli sia, porta in sé un misterioso pudore per tutto ciò che è la sua vita vera. Perché chi è troppo accecato dal fuoco della ribalta, chi troppo ha bruciato se stesso, chi vive solo per darsi agli altri nell’implacabile nudità del palcoscenico, vela sempre gelosamente il profilo nascosto di sé. È questo il suo unico modo di difendersi, di esistere, anche fuori e quasi contro il teatro che lo tiene legato a sé con mille fili.
Il mio Goldoni è un attento, affascinato osservatore del mondo femminile. È ammirato dalla concretezza delle donne, dalla loro vitalità, dalla loro capacità di vedere chiare le cose. Non è ancora un autore femminista, ma certi personaggi come Mirandolina, Giacinta, Bettina, le mogli dei rusteghi mettono in crisi quell’idea così radicata nel Settecento della donna sottomessa all’uomo. Anche nella vita, quando i “vapori neri”, la depressione che spesso lo prendeva, gli lasciavano un po’ di tranquillità, Goldoni era affascinato dalle donne. Le sue predilezioni andavano a un tipo di donna bruna, un po’ rotonda, femminile, spiritosa; e dalle sue memorie sappiamo gli amori che lo legarono alle attrici con cui lavorò, da Teodora alla Marliani alla Bresciani, senza mai però rinnegare la comprensione, l’affetto sicuro di chi capisce e non chiede, della moglie Nicoletta.
Il mio Goldoni è un uomo circondato da nemici. Molti, dovunque, come sempre succede a chi vuole cambiare qualcosa. Ma “il nemico” era solo il conte Carlo Gozzi, nobile, colto, intelligentissimo.
Al culmine della lotta che contrappone due modi antitetici di vedere la vita e il teatro, Goldoni lascia. Lascia Venezia, Gozzi, le polemiche, va a Parigi. Non ce la fa più come uomo, ma vince come artista. Le sue cose più grandi le ha scritte proprio nel corso di questa polemica, contro le “fiabe” sconnesse e geniali dell’aristocratico Gozzi. E un atto delle Baruffe distrugge tutto Gozzi, tutta la sua nobiltà e la sua cultura.
Oggi, per dare a quest’uomo, che morì solo, senza soldi, quasi senza affetti, a Parigi, il posto che gli compete davvero, occorrono spettacoli amorevoli e misurati, non inutilmente dissacrati né sterilmente formalisti, che riescano a far balenare almeno il riflesso di un certo linguaggio drammatico. È un lavoro in atto da non molto sulle scene d’Europa e che deve essere intensificato con attenzione critica, rispetto e amore. C’è una sua frase con cui vorrei concludere: «Ciò che vince nel cuore dell’uomo è sempre il semplice, il naturale»: un avvertimento per tutti noi e per il teatro che cerca di esprimere la realtà del nostro travagliato mondo. Se volete, il senso di tutto il suo lavoro di drammaturgo, di regista innamorato del palcoscenico e degli uomini e delle donne che gli davano la vita.

Goldoni. Tutto genio e regolatezza, “Grazia”, 29 novembre 1992

1993: il Bicentenario

Il 6 febbraio 1793 Carlo Goldoni si spegneva a Parigi. Aveva lasciato Venezia nella primavera del 1762 senza farvi più ritorno. Dunque il 1993 segna il bicentenario della morte del più grande commediografo e uomo di teatro italiano e uno dei più grandi dell’Europa moderna.
La rappresentazione di tre suoi capolavori, Arlecchino servitore di due padroni, Le baruffe chiozzotte e Il campiello, contemporaneamente, in tre teatri milanesi, è, dunque, anche un fatto simbolico. Essa apre una riflessione, non solo celebrativa, ma critica, amorevole e grata, che il teatro italiano ed europeo dovrebbe compiere sulla vita, sulle opere, sulla storia di Goldoni, che al teatro dell’Europa appartiene.
Quest’uomo, questa creatura che visse affondata nel teatro del suo tempo, alle soglie della Rivoluzione Francese, e che scrisse più di centocinquanta commedie, delle quali certo non meno di venti capolavori dell’arte drammatica – percorse quasi tutte da uno straordinario presentimento della fine di un’epoca e dall’annuncio commovente di un’altra – è un personaggio conosciuto e, allo stesso tempo, per tanti aspetti, ancora ignoto ai più. Anche in Italia.
Quale migliore occasione per rappresentarlo sui palcoscenici delle diverse nazioni europee e per incontrarsi seriamente, per parlare di lui e della sua grande lezione umana e teatrale? Così, io mi auguro che la nostra nuova edizione di tre suoi testi, che sono parte della storia del nostro teatro, sia soltanto il prologo e lo stimolo per accostarsi al teatro di Goldoni, da parte di uomini di teatro, per comunicarlo ai pubblici più diversi. Essi ne trarranno sempre emozioni e conoscenze dell’animo umano, riceveranno sempre gesti amorevoli, affettuosi, perché Goldoni, anche se talvolta duramente critico, è sempre un essere amorevole e affettuoso.
Goldoni ci presenta i rapporti tra esseri della vita, capiti dal di dentro, raccontandoci storie sostanzialmente d’amore, e di tutto quello che l’amore comporta di contrastante, di difficile e persino ambiguo. Gente che vive lavorando duramente, ma che conosce alcune leggi fondamentali del cuore.
Soprattutto, non ci sono l’odio e la sopraffazione. In queste commedie di “baruffe”, di scontri, in queste commedie aggressive e a tratti violente, nulla è fatto soltanto per “scherzo” o per comicità di teatro o per far ridere. Ogni cosa, anche la più comica, avviene sempre “sul serio”. Ma nulla mai è fatto per il male. Il Male è il grande sconosciuto nelle opere di Goldoni, anche se sconosciuta non è la difficoltà di vivere e vivere insieme, con gli altri e con se stessi.
Ebbene, a distanza di molti anni, ripercorrendo adesso la sua avventura, niente ci è apparso, nelle Baruffe come in Campiello, di popolaresco o di folclorico. Perché il popolo – proprio come ci ha detto Brecht – non è mai popolareggiante. Il popolo semplicemente è.

E siamo ancora più sicuri oggi di ciò che credemmo in quei tempi lontani. In questa società del disamore, dell’incapacità di amare, di amarsi, di credere ancora in qualcosa – ad esempio nella bontà fondamentale dell’essere umano con tutte le sue contraddizioni e i suoi affanni, in una possibile felicità, fosse anche di un’ora – Carlo Goldoni ci ha dato coraggio e ci ha rassicurato nella convinzione dell’umana tenerezza. E il riso ha preso il posto dell’angoscia, ci ha fatto toccare un brandello dell’umana verità. Questa metafora che solo la grande poesia, drammatica o no, può toccare e offrirci.
Basta che noi lasciamo scorrere il flusso della vitalità racchiusa nel teatro di Goldoni, basta che ci lasciamo portare per mano ad assistere allo spettacolo di una piccola-grande parte della vita umana sulla Terra.
Guardiamola, questa vita, con l’abbandono dei sentimenti, persino al di là delle parole. Sentiamola quant’è pulsante; e ascoltandola e vedendola sull’alto palco del Teatro del Mondo, ascoltiamoci nel profondo, e nel profondo guardiamoci, per sentirci più vivi e più fraterni.

“Teatro in Europa”, 10, dicembre 1992 / Programma di sala de Le baruffe chiozzotte, stagione 1992-93

Un Maestro che, noi del Piccolo, abbiamo tanto amato e tanto rappresentato

Cari amici,
l’altra sera, quando vi ho visto tutti insieme alle prove in questo luogo mentre suonavano le nostre musiche, mi sono detto con orgoglio e commozione: ecco la Grande Compagnia di un Teatro all’italiana che l’Italia non ha mai avuto. Ecco la “Compagnia” di una Nazione degna, capace di raccogliersi come simbolo della sua cultura e della sua umanità! C’erano qui più di cento donne e uomini del Teatro, tra attrici, attori, allievi di una giovane ma già gloriosa Scuola di Teatro e di un glorioso Teatro, anche se colpito da manovre oscure che certo non giovano all’immagine della Giustizia e della Verità.

Cento e più donne e uomini dietro, quasi cinquanta altri compagni che li aiutano, sera per sera, nel loro compito straordinariamente difficile, sul palcoscenico.

Vi ho pensati, intenti tutti, insieme ai vostri confratelli tedeschi e francesi, nelle prove dei Mémoires di Carlo Goldoni che avremmo dovuto incominciare proprio in questi giorni. Avremmo celebrato così ancora meglio l’Anniversario della morte di un nostro Maestro, che noi del Piccolo abbiamo tanto amato e tanto rappresentato: da una parte, recitando tre opere sue e, dall’altra, mettendo in scena un racconto della sua Vita, un’invenzione d’amore della sua esistenza, che fu difficile, generosa, umana e segnata da una ineluttabile vocazione al Teatro. Quel Teatro che è anche la vostra Vita.

Tutto ciò non è per ora possibile. Viviamo un momento terribile della nostra Storia come teatranti, come cittadini, come società civile e perché no, dunque, anche del nostro teatro e, quindi, di noi esseri della scena?

Il Teatro – nel bene e nel male – è lo specchio del tempo, riassume le contraddizioni della comunità alla quale appartiene. Non abbiamo bisogno di Shakespeare per saperlo. Egli ce l’ha detto con le sue alte parole e l’ha detto ai pubblici del mondo, ma noi lo “sentiamo” carnalmente, sera per sera.

In una società infelice, brutale e, soprattutto, impietosa e incapace di fraternità e di rispetto, noi siamo i più percossi nell’intimo. Ogni giorno, provando o recitando, dobbiamo superarci continuamente, vincere la nostra angoscia, e talvolta anche le nostre indignazioni, per compiere la nostra missione. Perché non è un mestiere il vostro: è una missione, ricordatevelo sempre!

Ecco perché sono ancora più vicino a voi, più grato e più compartecipe della vostra solitudine e del vostro amore per quello che avete compiuto: far continuare ineluttabilmente il Teatro, il nostro Teatro, certo, ma soprattutto una parte del Grande Teatro del Mondo. Portare alta la fiamma della Teatralità, raccontare piccole e grandi avventure degli uomini ad altri uomini, oltre i gravi accadimenti che vi circondano, oltre il dolore, la delusione e il timore del domani.

Così tutto è “andato in scena” regolarmente, al momento fissato, e come fissato. Tutto è stato compiuto con una ritualità severa, ponendovi, voi comici, contro la degradazione dei costumi e dei rapporti e contro tanta pessima recitazione, tanta teatralità degradata di molti di coloro che dovrebbero invece guidare le istituzioni e la vita del nostro Paese. Vi sta intorno uno spettacolo miserevole, al quale ogni sera voi opponete invece una nobile rappresentazione dell’uomo. Siatene orgogliosi. Io, come vostro compagno, nel mio sdegno per tanta ingiustizia e ingenerosità così diffuse, lo sono.

E mi dolgo di non essere con voi questa sera, in questo momento che dovrebbe essere di festa e non può. Non può perché troppe ombre ci stringono, perché troppa violenza si è scatenata contro di noi, piccola schiera umana, indifesa, composta di Grandi Bambini quali noi siamo. Grandi Bambini che però giocano ogni giorno col proprio cuore davanti alla gente. Pure il nostro Goldoni, il nostro Signor Carlo, il nostro G., come io l’ho chiamato nello spettacolo tratto dai suoi Mémoires che forse, lo spero ancora, noi faremo, merita almeno un attimo di pausa, un attimo di attenzione amorevole. E poi, non siete, non siamo soli. Attorno a voi c’è un pubblico che vi ha seguito e che vi vuole bene. Cosa sarebbe il teatro senza di loro? Cosa saremmo noi? Dunque, state tutti accanto, attrici e attori, apparatori, musici, donne e uomini del pubblico, state insieme per qualche istante e vogliatevi bene, volendo bene a un uomo che molto ha dato al teatro italiano, al teatro del mondo, che è scomparso duecento anni fa, in questo stesso giorno, in grande solitudine e povertà.

Io sono lontano soltanto fisicamente e la mia assenza non è un gesto “teatrale”, benché la nostra teatralità, rettamente intesa, appaia oggi un titolo d’onore. È il riserbo estremo, è il rispetto, e anche una infinita tristezza che la determinano. Così, mentre i tanti immeritevoli restano aggrappati ai loro posti e agiscono come se nulla fosse, io ho lasciato – finché Giustizia sia fatta, se sarà fatta – persino voi e la creatura che mi è più cara: il Piccolo Teatro. Ma nel riserbo, nel rispetto, nella tristezza e anche di più, io mi sento questa sera con voi come un esempio – piccolo ma vero – di un modo di essere, di comportarsi civilmente, che dovrebbe essere di tutti e invece non lo è.

Goldoni, senza farlo vedere, appartenne a un genere di uomini che compiono la loro storia con una estrema rettitudine interiore e che non volle restare prigioniero di ciò che era più comodo e più facile. Mai. In questo, solo in questo, mi sento a lui più vicino che a qualsiasi altro. E nel suo amore per il Teatro. Amore per questa piccola macchina di carta, così complessa, così fragile, in cui noi ci muoviamo, cercando di non guastarla, di non distruggerla, ma di farla volare in alto, il più alto possibile, sulla punta delle nostre dita, con il battito dei nostri cuori.
Siate insieme, fraternamente, più di sempre.

Il Vostro
Giorgio Strehler

Milano, 6 febbraio 1993

Lettera alle compagnie impegnate ne Le baruffe chiozzotte, Arlecchino servitore di due padroni e Il campiello in occasione del Bicentenario goldoniano – Archivio Piccolo Teatro di Milano

La missione teatrale di Goldoni

Parlare di Goldoni quasi come un dovere rituale in occasione del bicentenario della sua morte mi pare una cosa del tutto inutile se alcuni di noi teatranti, critici, studiosi del teatro non avessimo già da molto tempo rivolto il nostro amorevole interesse a questa creatura che visse la teatralità del suo tempo e quindi la teatralità di tutti i tempi – perché il teatro non muta mai nella sua essenza – in un modo così totale e con una tale chiarezza di disegno interiore che fu al tempo stesso, per lui, missione e vocazione. Vocazione al teatro e ai suoi problemi. Goldoni ebbe, dei problemi del teatro italiano in particolare, o di un possibile teatro italiano, una visione che a me sembra sempre sorprendente per chiarezza e perennità.
La nostra generazione – parlo della mia, di quella di Visconti, per citare un uomo di teatro, di quella di studiosi come Mario Baratto, Gianfranco Folena, Giuseppe Ortolani ed Eugenio Levi, che fu mio professore quando ero ancora al liceo e che per molto tempo mi “pervertì”, in un certo senso, alla sua visione di Goldoni, che non corrisponde affatto alla mia – questa generazione e quella appena successiva alla nostra ebbero la ventura di dedicare una parte del proprio lavoro a Goldoni e, come primo risultato, di riproporlo all’attenzione del pubblico e della critica. Attenzione che, prima di noi, era quasi del tutto assente. È per noi motivo di onore ciò che abbiamo svolto. Soprattutto noi, gente di teatro, ci trovavamo davanti al teatro di Goldoni completamente disarmati o quasi, con – alle spalle – una tradizione quasi inesistente e una cultura critica assente o paurosamente distorta e – di fronte – un pubblico che non solo ignorava Goldoni e il suo teatro, ma lo rifiutava completamente.
[…] Il primo problema davanti a cui ci trovavamo era l’assenza del pubblico. Per lo spettatore del tempo, il nome stesso di Goldoni era un motivo di rifiuto e di disinteresse. Sembra quasi incredibile dirvi che, allora, rappresentare, come Visconti fece, La locandiera in un normale teatro commerciale italiano, con degli attori che erano un Paolo Stoppa e una Rina Morelli, che ancora sapevano molto poco da un punto di vista culturale, richiese quasi un coraggio suicida. E parlo anche per me che, nel primo repertorio del Piccolo Teatro del ‘47, osai proporre Goldoni, anche se con una sua opera in un certo senso minore, ma soprattutto equivocata e ignorata qual è l’Arlecchino servitore di due padroni che, in effetti, si intitola Il servitore di due padroni. Io osai scrivere Arlecchino servitore di due padroni perché la maschera di Arlecchino era conosciuta un po’ da tutti. Ci fu un critico di Venezia che disse: «Adesso andiamo a dare quattro sciabolate a questo giovanotto che ha osato chiamare Il servitore di due padroni, Arlecchino servitore di due padroni». Per farvi capire la bassezza di quel tempo storico.
C’era poca ricerca, pochissima critica, che era molto spesso distorta. Una critica che, con una serie di banalità e di luoghi comuni, ci consegnava un’immagine lontana dalla verità e dal teatro di Goldoni. Gli attori veneti del momento, da Baseggio in poi, e qualche giornalista – per esempio Eugenio Palmieri che fu estremamente importante (lo chiamo giornalista in questo caso, ma non era solo giornalista, scrisse anche commedie molto importanti) e soprattutto Renato Simoni, cui io debbo la conoscenza di Goldoni – ci consegnavano una verità su Goldoni che era molto dubbia. È giusto che vi sottolinei questo inizio, o quasi inizio, del lavoro critico su Goldoni, compiuto proprio da alcuni uomini del teatro e del palcoscenico in mezzo – direi quasi – alla ostilità, ma più che all’ostilità, all’indifferenza collettiva. Ai miei tempi, soltanto il nome di Goldoni era sinonimo di noia, di teatri immancabilmente e paurosamente vuoti.
Quando rappresentai La trilogia della villeggiatura, nel ‘54, le cose erano già in parte cambiate. Come avrei potuto rappresentare uno spettacolo goldoniano, composto addirittura da tre commedie e che durava a quel tempo più di quattro ore, se gli interessi critici intorno a Goldoni non avessero già cominciato a prendere un corso diverso? Avevamo aiuti intorno e un certo consenso di base. E il pubblico non aveva più quella paura atavica di Goldoni, anche se c’era ancora una certa diffidenza che credo – sebbene in parte minore – perduri ancora oggi.
Il bicentenario della morte di Goldoni avrebbe potuto essere un momento non di riscoperta, ma di celebrazione e di approfondimento della teatralità goldoniana, in Europa e, soprattutto, in Italia. E mi pare, e lo dico con tristezza, che ben poco sia avvenuto. Qualche spettacolo si è fatto e qualche spettacolo si farà. Ma, dopotutto, avverrà poco.
Al Piccolo abbiamo organizzato una stagione goldoniana e alcune manifestazioni collaterali. È stata programmata una serie di incontri, primo fra tutti questo di oggi che è un po’ eterogeneo rispetto agli altri, ma che è pur sempre un lavoro di accompagnamento critico, di ricerca, un tentativo di entrare dentro al problema. Faremo tournée all’estero, e quattro teatri europei verranno a Milano a proporre spettacoli goldoniani sulle nostre scene: da La serva amorosa della Comédie-Française, alla Casa nova degli ungheresi, alla Bottega del caffè dei tedeschi. Sono state organizzate queste giornate a Firenze. Verrà messo in scena Il campiello. Fervono i lavori su Goldoni ma intorno non abbiamo visto molto. E siamo parsi un po’ come un’eccezione.
Abbiamo troppo da fare e troppo da pretendere su Goldoni. Per esempio, un’edizione attuale di tutte le opere di Goldoni: noi continuiamo a leggerlo sull’edizione Ortolani. Si fanno le fotocopie, perché non si trova più, da vent’anni, nelle librerie. I sapienti – che forse ne sanno più di noi ma sono anche un po’ troppo saggi – dicono: «È già desueto, gli studi sono andati avanti, ci sono certi problemi di linguaggio, Ortolani ha fatto degli sbagli».
Ma certo che ha fatto degli sbagli! È ovvio che ha fatto degli sbagli. Chi non fa sbagli? Dobbiamo fare sbagli, non siamo vivi sennò! Ma se voi voleste avere un’edizione completa delle opere di Goldoni, vi trovereste in un grandissimo imbarazzo, dovreste andare ancora a cercare l’Ortolani. Alla prima riunione del comitato del Bicentenario, dissero: «Noi facciamo per il Bicentenario l’edizione dell’opera omnia di Goldoni»; e uno si alzò e disse: «Sì, fra venticinque anni». E tutti rimasero male. Ma come fra venticinque anni? «Sì: prima bisogna fare il comitato, poi si cura l’edizione, quindi si pubblica: occorreranno vent’anni». Non abbiamo, in sintesi, un’edizione delle opere di Goldoni, né un’opera sulla vita di Goldoni. Dobbiamo accontentarci del poco che la cultura italiana oggi offre. Ma questo è un male antico che si iscrive in una consuetudine italiana: la poca importanza del teatro nel mondo della cultura italiana.
Nella nostra repubblica delle lettere il teatro non ha mai avuto il posto che gli spetterebbe: questa è la verità. Resta vera, purtroppo ancora oggi, l’osservazione che Goldoni fece due secoli fa quando entrando, bambino, in una biblioteca, si accorse che tutti i libri di teatro erano di autori stranieri. Dice Goldoni: «Si trovavano, ivi, raccolte del teatro francese, del teatro spagnolo, del teatro inglese, non v’erano raccolte del teatro italiano. Perché l’Italia non ha del pari un suo teatro o ne ha tanto poco?». Di questa biblioteca di un teatro assente, egli scelse come esempio, e non è un caso, la Mandragola di Machiavelli. Per un teatro italiano che non aveva potuto svilupparsi prima e che non ha saputo svilupparsi, in seguito, con una certa continuità. Ci resta anche una commovente immagine, nel primo tomo delle opere complete di Goldoni dell’edizione Pasquali, che mostra l’autore, questa volta giovinetto, con una piccola biblioteca familiare alle spalle: da uno scaffale fuoriesce un volume che ha un titolo chiaramente leggibile. È il titolo di una commedia, unica nel suo genere, scritta da Francesco De Lemene: si chiama La sposa Francesca, ed è un capolavoro solitario scritto peraltro in dialetto lodigiano.
Di fronte alla precarietà del teatro italiano, alla sua fondamentale incapacità di far diventare teatro la letteratura teatrale, Goldoni aveva una posizione di una chiarezza esemplare, impressionante. Nella sua apparente semplicità, essa sottende secondo me tutta l’opera di Goldoni che a torto – e forse questa è stata una delle mancanze più serie della critica – viene considerata opera di scrittura, mentre, secondo me, essa è una completa, sempre pericolosa e sempre vacillante e totalizzante operazione sulla teatralità del suo tempo e non solo. Secondo me, il teatro di Goldoni investe la problematica del teatro e dei suoi artefici ed è visto come un insieme di atti e di pratiche che corrono verso la rappresentazione. È un teatro che si avvera sui palcoscenici di tutto il mondo.
Teatro scritto, è vero, ma non basta che sia scritto, deve essere anche fatto, perché altrimenti non è teatro. Goldoni, che scrisse duecento commedie tra libretti in musica e altro, sentì che non gli sarebbe bastato in nessun modo che questi testi fossero stati scritti, dovevano essere fatti, dovevano essere rappresentati. È questo uno degli aspetti più sconvolgenti di Goldoni. Non possiamo dire diversamente del signor Molière. Nel caso della letteratura italiana, tuttavia, Goldoni è l’uomo che più sentì questa necessità.
In qualche modo, la sua opera di rinnovamento del teatro parte dagli interpreti. Il lavoro dei teatranti dovrebbe essere un continuo svolgersi di atti critici, creativi, d’amore – coscienti e incoscienti al tempo stesso – attraverso i quali riuscire a comunicare qualcosa nel modo più limpido e nel medesimo tempo più vasto e complesso. Basti pensare a Mozart: si può essere molto limpidi ed essere profondissimi; un’acqua limpidissima che ha delle profondità insondabili. Goldoni ha vissuto tutta la sua vita di vocazioni in questa dimensione: non intendendo mai il teatro soltanto come evento letterario, ma accettandolo nella sua verità e nella sua estrema e folgorante incertezza, cioè riconoscendo il teatro come strumento unico, labile e altissimo per comunicare agli altri qualcosa sul movimento della vita.
Insomma: teatro come invenzione della vita, teatro come riassunto della vita, teatro come favola, teatro come parafrasi, teatro come simbolo dell’umano destino e dell’umano svolgersi. Il fatto che il teatro si avveri in modi molto spesso degradati come oggi non deve farci pensare che in altri tempi queste cose non avvenivano e che Goldoni si trovasse di fronte a una situazione teatrale molto migliore della nostra. No: Goldoni si trova di fronte a un teatro estremamente pericolante, decaduto e decadente, forse perché il teatro decade sempre; è come l’essere umano.
Nasciamo, ma nel momento della nascita già cominciamo a morire. L’uomo è sempre in movimento, in un mutamento continuo. Il teatro, che noi pretendiamo sia preciso e perfetto, non può e non deve essere perfetto perché l’uomo non è equilibrato, non è perfetto: è sempre alla ricerca di qualche cosa. È attaccato al passato e teso verso il futuro, non capisce bene il passato oppure lo capisce, rimane troppo legato al passato e non vede il futuro, oppure vede troppo il futuro e non vede il passato: l’essere umano si trova sempre in una posizione precaria. Il teatro è l’arte del precario, è l’arte della cosa che non resta, della cosa che si muove. Ecco perché il teatro è così grande: perché è il simbolo dell’uomo. Goldoni fece questo: si immerse nell’esperienza del teatro del Settecento, e lo fece con una tenacia che ancora oggi mi suscita accenti di commozione.
Io sono sempre molto commosso quando parlo di Goldoni. Penso a Goldoni come a un eroe, come a un uomo che ebbe una missione profondissima e la svolse con un coraggio e con una continuità di cui egli stesso forse non si accorse o non volle accorgersi o non se ne diede conto. Noi, però, che veniamo dopo, abbiamo il dovere di riconoscere quale fu l’eroica presenza dell’uomo Goldoni, del poeta Goldoni nel teatro italiano.
Io penso che non sia il caso di pretendere di spiegare qui quello che io credo sia fondamentalmente il mistero di Goldoni. Vorrei indicarvi soltanto alcune linee guida, forse trascurate o forse non valutate in modo approfondito, che hanno alcuni punti di riferimento estremamente precisi. Vi faccio un esempio. Ci sono alcune frasi che Goldoni scrive, talvolta nelle sue memorie, talvolta nelle sue prefazioni di commedie, talvolta in una lettera. È qui che bisogna andare a cercare.
Goldoni dice una cosa molto semplice: «Le mie due guide alla vita io le ho studiate sui miei due libri, Mondo e Teatro». Io penso che non ci sia una esemplificazione più chiara e pertinente di questa, che è annunciata nella prefazione al sesto tomo dell’edizione Pasquali, quella che è rimasta incompiuta nel 1743 con un simbolico «eccetera, eccetera». Pensate che le memorie italiane di Goldoni – che terminano nel ‘43, cioè molto presto – finiscono con un «eccetera, eccetera». Goldoni non sapeva che l’edizione non sarebbe andata avanti e che quindi non sarebbero andate avanti le sue memorie italiane. Ma c’è comunque questo «eccetera, eccetera». Credo che proprio da qui si debba partire per dare un senso vero alla storia di un uomo e di un artista che, nel corso di duecento anni, siamo spesso ancora costretti a scoprire nella sua realtà, dato che siamo pieni di malintesi biografici, critici, letterari.
Cos’è il Mondo per Goldoni e che cos’è il Teatro per Goldoni? Mondo: vale a dire vita completa, rapporti fra creature umane, esistenza di azioni e di reazioni di esseri umani nel movimento incessante della vita, creature che entrano in contatto, si incontrano, si scontrano, si amano, si odiano, non si capiscono, si capiscono. Vita: Goldoni, in questa sua visione del mondo, accoglie qualche cosa che nessuno, né prima di lui né dopo di lui, ha accolto, e mi sembra molto strano che questo non sia stato abbastanza sottolineato. È la coralità del mondo. Goldoni vede il mondo come un insieme di esseri umani che compiono determinate azioni in una certa situazione, in certe situazioni. Ma non ne vede mai due, tre o quattro soltanto, non vede mai un protagonista gigantesco con intorno alcune persone.
E poi il Teatro cos’era per Goldoni? Era un mezzo d’arte scelto per vocazione e vissuto implacabilmente come missione. La missione di comunicare quel mondo attraverso il teatro e i suoi interpreti, anch’essi donne e uomini, che parlano a donne e uomini riuniti in un’entità che si chiama pubblico. E così Goldoni considera il suo destino di autore di teatro come quello di un uomo che parla del mondo soltanto come teatro e che vede il teatro soltanto come parafrasi del mondo. È molto semplice.
C’era un misterioso programma di poesia in questo Mondo e Teatro. E qui il “Teatro” è qualche cosa che mi ha sempre molto colpito. Mi ha sempre colpito il fatto che Goldoni, da una parte, non avesse un programma e che questo programma fosse tutto fatto a posteriori. Goldoni ha scritto che aveva un programma, ma l’aveva a posteriori, e in effetti è vero. Goldoni spiega a posteriori determinate scelte. Ma il programma di un artista deve essere a priori e non a posteriori. Goldoni aveva un programma, dentro di sé, che si andava creando volta per volta senza che lui sapesse che era un programma. Alla fine Goldoni ha detto: «Oh perbacco! Ma io avevo un programma» e l’ha teorizzato. Goldoni aveva un programma ma non da spiegare. Lo poté spiegare più tardi. Prima si basava sulle sensazioni, sulle intuizioni per procedere in questo suo difficile lavoro di aggancio della realtà.
L’altra cosa che lui dice è: «Io d’altronde non scrivo sermoni per insegnare ma commedie per onestamente divertire». Questo «divertire» Goldoni lo adopera semplicemente come lo ha adoperato più tardi Brecht. Diceva: «L’opera d’arte deve divertire». Ma, ovviamente, c’è divertimento e divertimento. Se un’opera d’arte non ci affascina, se un quadro non ci piace, se una musica non ci emoziona, se un teatro non ci dà delle sensazioni, se una cosa che vediamo non ci dice niente, allora non ci diverte, ci annoiamo e quindi non è arte. Non si deve aver paura di dire: «Sono andato a teatro, mi sono tanto divertito». Dobbiamo dirlo. In questo «onestamente» si compendia forse un’altra motivazione del suo teatro. Credo che nessun artista vero può aver fatto arte per insegnare e al tempo stesso nessun artista vero ha fatto arte per divertire soltanto. Nell’arte c’è un rapporto strettamente dialettico fra i due aspetti; senza questo rapporto non si fa arte ed è la mancanza di comprensione di questo rapporto che nel tempo ha creato l’equivoco sull’opera di Goldoni: l’equivoco del piccolo moralismo, della piacevolezza, del “sempre sorridente”, del gioco puramente comico-musicale, del “balletto” della sua teatralità.
Mi pare, invece, che si dovrebbe pensare subito all’altra frase folgorante di Goldoni, nella dedica della Donna di governo: «Il vero non si può nascondere». E l’altra frase ancora più perentoria nella dedica dei Rusteghi: «Ma più di tutto mi accertai che sopra del meraviglioso la vince nel cuore dell’uomo il semplice e il naturale». Io non ho mai capito come non si sia voluto – e in parte ancora non si voglia – non accettare che il vero significato di questo «onestamente» riguarda l’unica vera onestà possibile dell’artista, vale a dire la sua sincerità, la sua autenticità. L’artista deve capire il reale, deve innalzarlo a fatto d’arte con sincerità, con autenticità, senza artifici, senza ricorrere ai vari meravigliosi – e guardate che ogni epoca ha i suoi vari meravigliosi, cioè ha la finzione – ma cercando la strada della semplicità, della naturalezza e del calore, di una partecipazione affettuosa al destino degli altri, che è sempre il carattere fondamentale dell’atto creativo. L’atto creativo non respinge mai, attrae: l’artista ama l’uomo, anche se dice che lo odia; è felice dell’esistenza del cosmo, anche se dice che c’è il nulla. L’arte è sempre qualche cosa che ha a che fare con la positività, con la comunione e con l’umanità che c’è in noi.
«Quale dunque la filosofia di cui mi sono servito?», dice ancora Goldoni: «Quella che abbiamo impressa nell’anima»; guardate che sono delle parole terribili, di una chiarezza lancinante: «quella che dalla ragione viene insegnata, quella che dalla lettura e dalle osservazioni si perfeziona, quella che, infine, dalla vera poesia deriva – non già bassa poesia che chiamasi versificazione – ma dalla sublime che consiste nell’immaginare, nell’inventare, nel vestire le favole di allegorie, di metafore e di mistero». Io non so come tanta critica goldoniana non abbia mai pensato alle commedie di Goldoni anche sotto forma di allegorie, di metafore ammantate anche di mistero. Alcuni interpreti di Goldoni sono convinti che le sue commedie siano senza sottintesi, senza zone d’ombra, senza un sottofondo, senza quello che chiamate “sottotesto”. Non c’è – secondo loro – niente al di fuori di quello che c’è. Questo significa non capire assolutamente niente dell’operazione artistica di Goldoni, che ha invece la capacità di vestire le favole, di vestire di allegorie quello che racconta.
Le baruffe chiozzotte riguarda la vita di pescatori chiozzotti. Perché mai questa piccola società marinaresca che parla un sottodialetto, che abita in una sottocittà piccolissima, può diventare interessante? Perché ci interessa il fatto che Lucietta e Titta Nane litighino e non si capiscano? Perché sentiamo che forse questo clima che varia, questa giornata che passa, queste ore che mutano, questa sera che deve venire, questa gente che si vuol bene e poi non si vuol bene, si ama e poi non si ama, o forse si ama un po’ troppo e poi si ama un po’ poco, sentiamo che tutto questo rispecchia, dopotutto, la nostra vita. Non siamo pescatori, ma siamo uomini e donne anche noi. Nelle Baruffe chiozzotte si sintetizza tutto il nostro modo di essere preda della mobilità della vita, di essere incoerenti qualche volta, di essere anche scostumati per poi ritrovarci, di amare non sapendo amare, di non amarci amandoci. È un piccolo cosmo di pescatori chiozzotti che riassume stranamente la nostra vita. Il mare stesso è il simbolo della mobilità.

C’è questo piccolo gruppo di uomini e donne che è protagonista, per due ore e mezzo, di uno spettacolo di teatro che riguarda la loro vita, ma che riguarda un po’ anche la nostra vita. C’è un personaggio strano, che indossa una parrucca e sta lì in mezzo – poi sappiamo forse che è Goldoni – il quale vuole stare insieme a loro, ma questi non lo vogliono, dicono: «Sì, va bene, grazie. Però lei non fa parte di noi». Non lo fanno ballare. È un mondo che si muove, nel quale alcuni sono messi un po’ da parte. Si crea un certo gioco delle classi, delle categorie sociali che rende non sempre possibile il passaggio dall’una all’altra. E questo mi pare sia un elemento molto importante. È un aspetto presente anche nel Campiello.
Questo tema goldoniano della estromissione del borghese è estremamente importante dal punto di vista della società. Non si tratta mai, per Goldoni, di fare teatro come se si trattasse di una trascrizione stenografica della realtà. Sapete che esiste quest’equivoco. L’equivoco di un Goldoni che scende in strada col taccuino e prende appunti, poi va a casa, scrive, copia e vengono fuori Le massere, Il campiello e le commedie popolari. Questa era, in pratica, la teoria di Gozzi. Goldoni, invece, non copiava mai. Il dialetto di Goldoni non è veneto vero. Nelle Baruffe chiozzotte il chiozzotto è inventato dal poeta. Non è quello vero. I chiozzotti parlano quattro dialetti. Noi, quando ci preparavamo a mettere in scena il testo, abbiamo imparato tutto il chiozzotto di un quartiere, poi siamo andati in un altro quartiere e ci siamo accorti che parlavano un altro dialetto. Bisogna inventarne uno, come ha fatto Goldoni, che ha creato un metachiozzotto che è di tutti e di nessuno. Questo è uno dei molti lavori – enormi – che lui ha fatto.
E a questo punto Goldoni si scontra con la lingua: capite che questo è un problema nodale del nostro discorso. Come parlano sul palcoscenico i personaggi fra di loro? Goldoni si è domandato: «Quale lingua?». Una lingua convenzionalmente toscana, cioè apparentemente pura, secondo i canoni della Crusca, o una lingua tendenzialmente mediata, una lingua inventata, con possibili e coraggiose immissioni di espressioni dialettali, di parole, di modi e di usi del resto d’Italia, da Ferrara a Torino? La scelta di Goldoni non pone dubbi: egli fu sempre contro quella lingua che si potrebbe definire toscaneggiante. Non lavò mai i suoi panni in Arno, ma li lavò in molti altri fiumi e non sempre seppe risolvere il suo linguaggio in uno stile nitido. La sua fu una ricerca faticosissima e gli costò molte volte scacchi e anche cadute letterarie direi inevitabili, ma la strada era (ed è) quella da lui intrapresa ed è in quella direzione che il teatro italiano avrebbe dovuto muoversi. Quella strada, invece, solo alcuni la imboccarono nella nostra storia letteraria – più felicemente o meno felicemente di lui – e il teatro italiano oggi sta cercando ancora una lingua per parlare e non sa mai bene quale lingua debba usare.
Goldoni affrontò quindi un altro problema: quello del dialetto. Per noi esiste un linguaggio della vita e dei rapporti umani – l’italiano (ma quale italiano?) – e poi esiste un linguaggio segreto, quello del cuore, del nostro quotidiano affettivo. Ha, quest’ultimo, il diritto e la possibilità di diventare linguaggio teatrale, cioè letteratura? Goldoni risponde a questa domanda con un insieme di opere in dialetto: in prosa, in versi e addirittura – in un caso – in un sottodialetto in gran parte inventato, cioè il dialetto chiozzotto. Queste opere stanno accanto alle altre in lingua italiana su un livello non minore. Secondo me, stanno accanto alle altre su un livello maggiore e con una risoluzione artistica forse migliore, con un polo irraggiante insostituibile e, in molti casi, forte di una dialettica teatrale che è, nel medesimo tempo, anche una dialettica storico-culturale. Basti pensare a un semplice esempio: La putta onorata. Goldoni fa parlare una parte dei personaggi in lingua italiana e un’altra parte in dialetto. Ci sono due case in scena: in una abitano conti e marchesi che parlano italiano, nell’altra abitano i barcaioli, insieme alla putta Bettina, che parlano veneto. Quando i membri di questi due gruppi parlano fra di loro, si intendono alla perfezione, ma quando il marchese si invaghisce di Bettina, è costretto a entrare nella casa dirimpetto. Apre la porta, entra e dice: «Mia bella giovine come state?». E Bettina gli risponde: «Cossa la vò, signor?». E ha inizio una specie di contrasto fortissimo, che mette in urto i due mondi e non solo i due personaggi, la Bettina e il marchese.
Goldoni adopera questa nostra particolarità che è completamente estranea al teatro di Molière. Molière non ha una sola commedia in cui i personaggi entrano in collisione da un punto di vista linguistico. In Molière, i servi, che sono per lo più piccardi, parlano sempre in dialetto. Ma sono dei servi. Non sono mai i grandi personaggi che parlano in dialetto. L’avaro non parla in dialetto, parla in perfetto francese. I due servi dell’avaro che litigano fra di loro possono parlare in bretone. Il problema è completamente diverso ed è giusto che sia così. Il signore parla in francese con la figlia mentre le serve e i servi parlano fra loro in dialetto. Il dialetto è adoperato come mezzo per identificare diversi strati sociali che non sono mai messi in contrasto: l’antagonista del malato immaginario, il dottore, non gli parlerà mai in un “latinorum” spaventoso, non gli dirà delle cose tremende che lui non può capire. Il dottore gli parla in francese con un po’ di latino.
Credo che, a questo punto, bisogna dire due parole sulla riforma. Vedete, ci hanno insegnato che Goldoni è l’uomo che ha dato un colpo definitivo alla Commedia dell’Arte. Goldoni si trova davanti a una Commedia dell’Arte diventata ormai quasi una commedia scritta, nel 1740, una falsa Commedia dell’Arte, quasi scritta per intero, all’interno della quale soltanto un uomo grande come Sacchi e pochi altri riuscivano a fare cose incredibili. Non a caso Goldoni, con una chiarezza lancinante, dice che ci furono tre grandi attori nella storia della sua vita: David Garrick, Antonio Sacchi e Molé Préville, che recitò in Le bourru bienfaisant. Tre attori: uno inglese, uno italiano e uno francese. Non so perché ci sia Garrick, dato che non risulta che Goldoni andò in Inghilterra e non so se mai lo vide in una tournée. Può darsi che a Parigi lo vide, non si sa. Ma l’affermazione di Goldoni è molto perentoria. Gli attori come Sacchi inventavano ogni sera cose incredibili, ma gli altri attori andavano in scena con i loro libretti e, essendo attori poco colti o un po’ pigri, recitavano, una sera dopo l’altra, più o meno sempre la stessa cosa.
Questa fu la Commedia dell’Arte che trovò Goldoni. Senza Goldoni, la Commedia dell’Arte sarebbe finita ugualmente. Goldoni si domandò, invece, se fosse necessario far cessare questa commedia, che non aveva più senso, perché non era abbastanza scritta per essere recitata, e non era abbastanza improvvisata per darci un senso di freschezza e novità. La Commedia dell’Arte, nel 1740, non era abbastanza nuova per risuonare delle cose che ci sorprendono, e non era abbastanza vecchia per risuonare di quello che era scritto. Ma il problema era cosa scrivere nelle commedie scritte: Goldoni teneva soprattutto alla qualità del testo scritto. Questa è la sua riforma. Vuole un teatro scritto, ma anche un teatro della verità, un teatro della vita che si fa in ogni istante, un teatro della vita di tanti e in rapporti possibilmente reali. Questa è la storia della vocazione di Goldoni. Vocazione a un teatro che l’Italia non ha mai avuto e che lui ha perseguito con estrema lucidità e coerenza. Goldoni ha semplicemente avuto la grande idea di un teatro nazionalpopolare. Questa è la sua vera, grande riforma: creare un teatro nazionalpopolare italiano e per questo europeo o internazionale, ma che non rinnegasse la sua nazionalità e la sua popolarità.
Voi credete che all’estero siano venuti a vedere Le baruffe o Il campiello o altre commedie, semplicemente perché c’è Ferruccio Soleri che fa l’Arlecchino? Può darsi che qualche capriola li faccia divertire, ma nel Campiello questo tipo di comicità fisica è assente. Gli spettatori, all’estero, percepiscono il riflesso, percepiscono la parafrasi della vita, percepiscono questa grande identità. Dicono: «Questi modi di fare non appartengono a noi. Ah, com’è interessante l’uomo! L’uomo è capace di agire così, io non potrei mai litigare con quella lì in quel modo, però anch’io litigo. Questi personaggi sono miei fratelli, anche se sono miei fratelli in un’altra maniera». Ecco il nazionalpopolare. Proprio vedendo come litigano loro e sapendo come litighiamo noi, ci accorgiamo che, in tutti e due i gruppi etnici, litighiamo, ma con modalità differenti e siamo quindi differenti e uniti. Questa era, secondo me, l’idea che Goldoni ebbe, ma non la ebbe come teoria: la fece. L’idea di questo teatro popolare italiano sta alla base di un piccolo catalogo di testi con il quale penso di finire il mio discorso.
Negli ultimi due anni vissuti a Venezia, Goldoni scrisse: Gl’innamorati, I rusteghi, Un curioso accidente, La casa nova, Le smanie per la villeggiatura, Le avventure della villeggiatura, Il ritorno dalla villeggiatura, il Sior Todero brontolon, Le baruffe chiozzotte, Una delle ultime sere di Carnovale. Cinque commedie in lingua e cinque commedie in dialetto. In questo catalogo si delinea il profilo di un grande teatro italiano che l’Italia è ben lungi dal possedere. L’immagine di quel tenero gioco di carte a un tavolo illuminato da candele in una notte di Carnevale illustra tutto un modo di essere del teatro che sarà più tardi una parte della conquista della nostra contemporaneità.
C’è ancora un altro aspetto che non è stato riconosciuto a Goldoni e che me lo rende ancora più caro: la divina dote della malinconia. Dal Croce in poi, De Sanctis e gli altri dicono: «Sì, va bene, ma la divina dote della malinconia Goldoni non ce l’ha». Ho dei dubbi. Quando feci la Trilogia a Roma, scrissero che era molto cechoviana. Ripensandoci, qualche pausa di troppo mi è sfuggita. Ma, vedete, io sono stato sempre molto attento alla durata delle commedie di Goldoni che hanno tre o cinque atti: incominciavano a una certa ora la sera e finivano a un’altra determinata ora. Un atto non poteva durare più di venticinque minuti. Se un atto di Goldoni dura quarantacinque minuti o un’ora, come il primo atto dei Rusteghi, vuol dire che non funziona perché è stato scritto per essere recitato con un ritmo da trentacinque a quaranta minuti. Ci sono delle regole, e io – a parte qualche
eccezione – le ho sempre tenute presenti.
C’è, in certi momenti, un certo cechovismo in Goldoni. Personaggi che non si è mai saputo se piangono ridendo o ridono piangendo. Vanja ride piangendo. «Ma come si fa a ridere piangendo?» chiede l’attore. «Mah!» diceva Čechov «uno capisce o non capisce». Nella vita, noi sappiamo perfettamente come si fa a piangere e ridere nello stesso tempo. Credo che Goldoni ce l’abbia, qua e là, una vena di profonda malinconia. È la malinconia di un uomo che vede un mondo che sta andando verso il suo destino. C’è, nel suo teatro, la sensazione di andare un po’ alla deriva. Goldoni era un borghese, apparteneva al ceto mercantile ed è molto eroico ciò che ha fatto. Noi svalutiamo l’eroismo di Goldoni se non ci si rende conto che quest’uomo, in un secolo in cui essere liberi scrittori era quasi un delitto, ha scelto la carriera del drammaturgo.
Gozzi parla di lui come di un uomo volgare che per guadagnare scrive commedie: secondo Gozzi, uno fa la poesia perché ha bisogno di fare la poesia, scrive una commedia perché ha voglia di scrivere una commedia. Haydn è morto con indosso la divisa di servo del conte Esterházy. Niente è più commovente del pensiero dell’ottantacinquenne Haydn che, nel giorno del suo compleanno, quasi sordo e cieco, viene portato – seduto su una sedia issata da altri servi – dentro la sala del teatro del castello di Esterházy dove c’erano tutti i principi e i regnanti d’Europa che si alzano in piedi davanti a un uomo vestito in livrea da servitore. Mozart, invece, non ha voluto tutto questo. È andato a Vienna a fare il libero professionista: fare il libero professionista, fare il teatro come faceva Goldoni era una cosa che non stava bene e che non si doveva fare. Ha voluto diventare un professionista del teatro, che lavora in teatro e contemporaneamente scrive e dirige le proprie commedie.
Quello relativo al Goldoni regista è un capitolo lunghissimo. La pratica teatrale di Goldoni credo sia una delle più sconosciute. Ed esistono pochi studi in merito. Goldoni fu un grandissimo regista, un grandissimo uomo di teatro. Regista nel senso di direttore di compagnia, direttore di attori. Stava tutto il giorno in palcoscenico, cercava di mettere in piedi le sue commedie, mostrava come si faceva, insegnava. I suoi precetti sono assolutamente saggi, i suoi giudizi sugli attori sono folgoranti. Nelle Baruffe chiozzotte c’è un personaggio, Padron Fortunato: Goethe vide lo spettacolo venticinque anni dopo la partenza di Goldoni dal San Luca, fu colpito da un attore che interpretava Padron Fortunato e ne parlò come di un personaggio estremamente tragico. Il particolare più toccante della commedia, secondo Goethe, è quest’uomo che continua ad annaspare con le mani nel vuoto senza riuscire a parlare, a pronunciare le parole. Una vita di stenti lo ha in parte privato della parola e il suo modo di esprimersi è affannoso. Nel testo questo aspetto non viene fuori che in parte: Padron Fortunato mangia solo un po’ le parole. Chissà cosa vide Goethe? Forse l’attore di Goldoni, oppure il nipote, o ancora un attore che aveva visto l’allestimento curato da Goldoni. Certamente, quel modo di annaspare con le mani nel vuoto per comunicare la tragedia di un personaggio che non riesce a parlare fu una trovata del regista Goldoni, dello scrittore Goldoni che lo insegnò a un attore, e che poi forse a sua volta lo insegnò all’attore visto da Goethe.
Si disse, come prima cosa, che Goldoni fece la sua riforma avanti e indietro, un po’ sì e un po’ no: se ne dimenticava e poi vi ritornava. È un grave errore. Nel ‘52 Goldoni è al San Luca e scrive La locandiera. Nel ‘53 e nel ‘54 comincia a scrivere La sposa persiana, l’Ircana in Ispaan, l’Ircana in Julfa, La peruviana. Immondissime tragedie per fare concorrenza a quel mascalzone del Chiari. Probabilmente Goldoni era anche innamorato della Bresciani che era una bella ragazza toscana, mora, imponente, adatta per la tragedia. La chiamavano “la Ircana”. Fu un insieme di cose a indurlo a scrivere queste tragedie: l’amore, l’interesse, il Chiari. D’un tratto, poi, scrive Le massere e Il campiello che è forse la più grande commedia in veneziano, in versi, scritta nel ‘56, esattamente nell’anno in cui scrisse le Ircane. Le massere è invece dell’anno precedente. Nel ‘58 scrive Gl’innamorati. Anche se in certi momenti l’accantona, il disegno – il piano segreto – è sempre lo stesso; vi ritorna sempre. Non poteva scrivere tragedie immonde su Ircane e Peruviane e poi scrivere Il campiello o Le massere se non aveva chiarissima, in testa, l’idea che Le massere e Il campiello sono quello che devono essere e le Ircane sono un qualcosa che è in più.
Goldoni – e questa è la seconda cosa importante da dire – alla fine della sua vita se ne va a Parigi. Altro mistero. Perché Goldoni è andato via? È andato via per tutte le cose che vi ho detto. Gozzi aveva ragione: disse che Goldoni era un rivoluzionario, un uomo pericolosissimo per le istituzioni, che aiutava gli «sporchi costumi dei sozzi plebei». E diceva una cosa molto semplice: fate il conto delle commedie e noterete che i mascalzoni sono tutti conti e marchesi, mentre le persone perbene sono borghesi o appartengono al popolo. È questo il dramma di Goldoni. Goldoni scrisse per i borghesi, per il Pantalone mercante che si oppone alla classe nobiliare in decadenza. Ma a un certo punto arriva a scrivere I rusteghi: una commedia in cui ci sono quattro “fascisti” in scena. E per “fascisti” intendo individui chiusi alla cultura e all’umano, retrogradi, oppressivi. I rusteghi sono quattro mostri, teneri se volete, perché sono descritti da quest’uomo che aveva la mano d’una delicatezza estrema, ma sono d’una asprezza terribile. Goldoni ha finito per fare la commedia della morte della borghesia, una borghesia che è peggiore dei marchesi e dei conti. Distrugge la classe che aveva cantato e a cui egli stesso apparteneva. A questo punto va via da Venezia. Non gli danno la pensione perché a uomini pericolosi come lui non si danno pensioni. Si danno le pensioni solamente a uomini utili alla Repubblica e lui non era utile alla Repubblica.
Andò a Parigi con un contratto come drammaturgo del Théàtre des Italiens. Tutti dicono: povero vecchio Goldoni, è andato a Parigi perché pensava di andare lì a fare la riforma. Questo non è possibile; al Théàtre des Italiens c’erano tutti i suoi vecchi amici e lui sapeva benissimo che facevano dei lazzi sconcissimi. Il Théàtre des Italiens a Parigi è un teatro di “rivista”; la rivista più bassa. Immaginatevi se Goldoni non lo sapeva. Goldoni va via perché è disperato: è disperato perché non gli hanno dato la pensione, perché ha paura della vecchiaia, perché sente che un mondo sta morendo e che il suo mondo, quello che lui ha difeso, sta diventando – trent’anni prima della Rivoluzione francese – ancora più gretto, più bieco, più cupo e più chiuso di quello che lui ha lasciato. E intuisce, secondo me, che là, nel cuore dell’Europa, succederà qualche cosa, anche se non sa esattamente cosa.
Va a Parigi e diventa spettatore: non scrive praticamente più, fa un solo exploit meraviglioso, scrive una commedia in francese, svalutata, Le bourru bienfaisant. Un uomo, a sessant’anni, che si mette a scrivere in lingua straniera una commedia che viene rappresentata alla Comédie-Française, sapete, non è una cosa da poco. Manda poi a Venezia Il ventaglio che, per me, è la “meccanica” di Goldoni, non è il suo capolavoro, né lo sarà mai. E finisce spettatore di una storia che si sta facendo. Va in miseria, frequenta la corte, gioca, vive, è uno spettatore attentissimo che guarda la vita ormai con distacco.
Morì in una miseria terribile, dopo aver venduto la sua biblioteca al segretario dell’ambasciatore veneto (c’è una lettera straziante di Goldoni in proposito). Una sera del 6 febbraio 1793 morì. Eravamo alle soglie del Terrore, ormai. In gennaio era stato decapitato il re Luigi. E Goldoni da che parte fu? Fu un rivoluzionario?
Goldoni fu, secondo me, quello che fu detto nella seduta del 6 febbraio 1793. La storia è qualche volta molto giusta. Fu una seduta interminabile, con all’ordine del giorno dodici argomenti. Ultimo argomento: della restituzione della sua pensione al poeta Carlo Goldoni. Pare che siano arrivati all’articolo numero undici e che a questo punto tutti abbiano deciso di rinviare la seduta alla mattina successiva. A questo punto si è alzato Marie-Joseph Chénier: «Guai che si dimentichi, in questi momenti terribili, il valore dell’umano e della cultura». E ha invitato tutti a discutere l’ultimo comma. Sono stati portati i candelieri e Chénier ha tenuto un discorso di un’ora e mezzo. Ne leggo l’ultima parte. «E così, cittadini, è grande titolo d’onore avere voluto protrarre questa lunga seduta della Convenzione Nazionale fino a quest’ora tarda per esaudire anche l’ultimo argomento dell’ordine del giorno, sette febbraio dell’anno secondo della Repubblica, non che l’aver ascoltato ciò che io dovevo dire in favore di un cittadino sì crudelmente, sì ingiustamente colpito dalla sorte. E qui concludo: Goldoni sta finendo i suoi giorni nella miseria. I rappresentanti della Nazione, decidendo giustamente di abolire ogni pensione e ogni privilegio a Luigi Capeto, hanno tolto anche a quest’uomo e alla sua fedele compagna l’unico mezzo di sostentamento che essi avevano. Ma Goldoni, questo riconoscimento, seppur piccolo, l’aveva meritato non dalla corte ma dal popolo francese. Tutta la sua opera appartiene ai tempi prossimi della libertà: il disgusto della licenza a teatro, il disprezzo per un teatro che null’altro poteva fare che avvilire ancora di più gli uomini già avviliti è stato uno dei presagi della caduta del dispotismo, ed è in questo spirito che Goldoni ha riformato il teatro italiano ed è con questo spirito che egli ha eletto la Francia come sua seconda patria. Dico di più, Goldoni apparteneva lo stesso così strettamente alla rivoluzione che grande tormento gli fu essere costretto dalla vecchiaia e dal bisogno a mendicare una pensione della corte e io stesso – e non solo io – l’ho sentito esprimere con calore il rimpianto di non poter gettare nel fuoco, che ha consumato gli attributi fallaci della corte, anche il titolo che lo faceva dipendente di un mondo che egli in cuor suo disprezzava. E noi, che oggi abbiamo il grande compito di amministrare la Francia, noi che oggi stesso abbiamo dovuto occuparci di cose così gravi e di così gravi eventi come quello della guerra, quello del carovita, dei tradimenti che si annidano intorno alla nostra rivoluzione, noi concludiamo questa nostra faticosa giornata preoccupandoci anche degli eterni valori dello spirito, degli eterni valori della cultura e della poesia. Goldoni è povero e ciò non deve sorprendere, ha pochi debiti eppure non li può pagare. Propongo quindi di restituire come pensione della Repubblica Francese la cifra che Goldoni aveva come pensione legale, di fare altresì una rappresentazione de Le bourru bienfaisant, scritta da Goldoni in francese, devolvendo l’intero incasso a lui e alla sua moglie». E qui purtroppo in italiano non potrà risaltare il bellissimo gioco di parole: «Questa sua commedia, ispirata a un alto senso della giustizia, non è del resto senza rapporto con la nostra storia, perché noi stessi oggi, a ogni ora, siamo costretti a essere duri e talvolta crudeli, senza però dimenticare la nostra tenerezza».
Viene messa ai voti la proposta di Chénier per la creazione della pensione di Carlo Goldoni: la votazione avviene per alzata di mano. La Convenzione Nazionale approva all’unanimità. La seduta è sciolta. Un messo, il giorno 7 febbraio, porta un plico alla portineria della casa di Goldoni. Va a restituirgli i soldi, la pensione. «Ah, mais lui, il est mort, hier, le pauvre». Era morto il 6.

Intervento alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Firenze in occasione della commemorazione di Ludovico Zorzi nel decimo anniversario della sua scomparsa, 16 marzo 1993; trascrizione pubblicata in Memorie. Copione teatrale da Carlo Goldoni, a cura di Stella Casiraghi, Firenze, Casa Editrice Le Lettere, 2005

Alla ricerca del “mio” Goldoni

Il “mio” Goldoni l’ho ricercato come unità nella diversità. Quell’unità che accomunava il superamento della Commedia dell’Arte in Arlecchino al dramma di vanità e di amore nella Trilogia della villeggiatura, il gioco borghese di contrasti degli Innamorati al popolare-critico-sociale delle Baruffe e del Campiello. L’ho cercata nel mio progetto, sia pure mai realizzato, della messinscena di Una delle ultime sere di carnovale e nella mia sceneggiatura dei Mémoires. Tanti Goldoni, eppure uno solo, unico e indivisibile.

Soprattutto, però, l’ho ricercata nella somma delle sue creazioni – e questa somma mi ha portato a ritrovare l’uomo.

È quindi nel segno di questo “ritrovamento” e di questo identificarsi di opera e di vita che va ricercata ed evidenziata una grande figura che soltanto da poco tempo – relativamente! – è stata proposta: con un senso di grande stupore e di consapevole fratellanza.

Dattiloscritto, datato 8 settembre 1993, per una pubblicazione del Teatro Festival Parma – Archivio Piccolo Teatro di Milano

Goldoni e il teatro

Non è facile parlare di un teatrante così complesso com’è stato Goldoni, e soprattutto parlare del teatro quando il teatro o si fa poco o non si fa del tutto: una delle grandi difficoltà è che il teatro ha bisogno di essere rappresentato. Il vero testo di un grande autore di teatro si vede e si riconosce solo nel momento della sua rappresentazione teatrale. La rappresentazione teatrale pone il problema di scegliere come deve essere fatto l’allestimento. Infatti, noi che siamo degli interpreti, se rappresentiamo qualcosa in modo distorto o in modo fallace e del tutto personale, senza attenzione critica per il testo, o senza responsabilità, tradiamo la realtà di un testo. Certo, un testo lo possiamo sempre leggere, ma leggere è un’altra cosa: leggere il teatro non è come leggere la poesia. Leggere il teatro non richiede l’incontro tra chi legge e la parola scritta; il teatro ha invece bisogno di un gruppo di intermediari, donne e uomini, di altre persone che non appaiono, ma che lavorano per il teatro. Necessita di oggetti, di spazi. Noi abbiamo bisogno dei luoghi e delle misure spaziali, dei punti di appoggio; possono essere porte, sedie, cose dipinte, ma dobbiamo definire uno spazio nel quale gli attori, le attrici possano raccontarci non le loro storie, ma le storie di altri, in questo caso, le storie di Goldoni.

Insomma – lo si voglia o no – la rappresentazione teatrale è molto importante. Credo che una delle caratteristiche di Goldoni sia stata quella di avere chiarito bene il senso della teatralità, di cui era un servo devoto e alla quale sacrificò tutta la sua vita con notevole eroismo, e di aver chiarito ancora una volta che il teatro si fa a teatro. Per questo Goldoni non fu soltanto scrittore di teatro, non scrisse soltanto commedie che poi altri avrebbero rappresentato, ma visse tutta la propria vita stando nel teatro scritto da lui e da altri. La maggior parte dei lavori che Goldoni ha allestito erano suoi; se allestiva opere liriche, era autore del libretto.
Ma il testo era sempre messo in scena da Goldoni in persona, che lavorava con attori e con attrici di volta in volta diversi, a seconda del periodo della sua vita. Per questa ragione, tutto il teatro di Goldoni è anche la storia di lui uomo di teatro. Non era solo un uomo di lettere che a casa scriveva commedie e poi le dava da rappresentare a qualcun altro. È questa la figura duplice e complessa di Goldoni: Goldoni agiva così, scriveva e si rappresentava.
Goldoni è un autore ancora molto poco conosciuto in Italia. Con Luchino Visconti abbiamo cercato di farlo amare di più; il problema fondamentale è, dopo tutto, quello dell’amore. Ai tempi della nostra gioventù, quando Visconti mise in scena La locandiera, io avevo già realizzato Arlecchino servitore di due padroni, e mi stavo occupando della Trilogia della villeggiatura. Dire, in un teatro italiano, che si sarebbe rappresentata un’opera di Goldoni, significava ritrovarsi con il teatro vuoto. La nostra è stata una battaglia – per voi difficile da immaginare –, una battaglia violenta contro la tradizione della cattiva rappresentazione del teatro di Goldoni che aveva portato questo straordinario autore lontano dal pubblico. Il pubblico non l’accettava allora, come in un certo senso oggi rifiuta Alfieri. Annunciare l’Oreste di Alfieri, ancora oggi, equivale a spaventare il pubblico, perché su Alfieri non è stata ancora portata a termine quell’opera di valorizzazione che noi siamo riusciti a fare su Goldoni.
Abbiamo rappresentato come meglio potevamo un Goldoni diverso da quello che avevamo visto nella nostra infanzia; a poco a poco, attraverso un lungo lavoro, siamo riusciti a farlo accettare e amare. Noi teatranti abbiamo per primi puntato i riflettori su Goldoni, sul suo teatro, sul modo di farlo e sulla complessità di questo tipo di teatro, ma anche sulla complessità dell’autore e sull’uomo. Abbiamo, in un certo senso, lavorato contro i luoghi comuni che lo dipingevano come un vecchietto arzillo e un po’ allegro che scriveva delle commedie per far ridere la gente. Abbiamo creduto invece che Goldoni avesse profondità inconsuete che dovevano essere scoperte.
L’opera d’arte si fa arte nel momento in cui prende una forma concreta, come la verità è realmente tale quando la si conquista attraverso un duro lavoro di conoscenza. A volte può costare l’impegno di tutta una vita e non soltanto il lusso illusorio di qualche frase o di qualche ipotesi o di qualche giudizio lanciati come lustrini sullo specchio iridescente della cultura con qualche volume, qualche gesto, qualcosa di bizzarro e di fuori dal comune, che in apparenza colpisce e affascina. Dietro a tutto questo, in realtà, non c’è che il vuoto, la morte.
L’attitudine di Goldoni in rapporto al Teatro non si risolse mai nel gettare lustrini sullo specchio della cultura. È per questo motivo che, a maggior ragione, trovo giusto parlarne, soprattutto in occasione del bicentenario dalla sua nascita e, soprattutto, ancora oggi che la sua figura di scrittore e di uomo di Teatro continua a essere avvolta da una sorta di pregiudizio, di incapacità, d’ignoranza, forse per la difficoltà di comprenderla per quello che è: Goldoni è uno dei più grandi scrittori del XVIII secolo, perché è un uomo di Teatro, perché, allo stesso tempo, è un uomo di Teatro, ma è anche al di là della teatralità…

Il teatro, nel mondo della cultura italiana, non ha mai trovato il posto che gli spetterebbe, e, diciamolo pure, nonostante le eccezioni, resta ancor vera l’osservazione che proprio Goldoni fece tre secoli fa: ragazzo, entrando in una biblioteca, si accorse che troppi titoli di opere teatrali erano di autori stranieri. Dice Goldoni: «Si trovano raccolte del teatro francese, del teatro spagnolo, del teatro inglese, non si trovano raccolte del teatro italiano». Sulla precarietà del teatro italiano, sulla fondamentale incapacità di far diventare teatro la letteratura teatrale, Goldoni aveva una posizione di una chiarezza esemplare. Nella sua apparente semplicità, essa sottende tutta la sua opera che a torto – e questa è forse una delle mancanze più gravi della critica italiana – viene considerata quasi sempre come un’opera di scrittura: in realtà è una complessa operazione totalizzante sulla teatralità del suo tempo e non solo. Investe le problematiche del teatro e dei suoi artifici, visti come un insieme di atti, parole, pratiche che corrono tutte verso la rappresentazione, verso il teatro che si avvera sera per sera sui palcoscenici del mondo.
Goldoni ha vissuto tutta la sua vita in queste dimensioni, considerando il teatro come evento necessario, accettandolo nella sua verità e nella sua estrema folgorante incertezza, riconoscendolo come unico strumento labile e altissimo per comunicare qualcosa della vita: teatro come parabola, teatro come parafrasi, come simbolo dell’umano e del destino dell’uomo, e dell’umano svolgersi.
Ho scritto in questi ultimi tempi un testo drammatico tratto dai Mémoires che, spero, se le circostanze lo permetteranno, di mostrare al pubblico. È una specie di racconto, un racconto molto vero e molto inventato, dove non si sa mai se le cose siano andate proprio così come io le ho pensate, se siano storicamente e biograficamente esatte o si tratti semplicemente delle parafrasi, oppure dei pensieri. Penso che la biografia di un uomo d’arte si possa fare, non soltanto però attraverso la verità delle cose, quelle ineluttabili, ma anche con un atto d’amore e di invenzione. In questo lavoro racconto la vita di Goldoni e il suo svolgersi. Il tono che ho pensato è un tono estremamente commovente, perché la vita di quest’uomo mi ha commosso non appena sono riuscito a superare l’immagine retorica che la scuola mi aveva dato.
Di Carlo Goldoni, nato nel febbraio del 1707 da una famiglia borghese, abbiamo notizie apparentemente quasi solo attraverso i suoi mémoires italiani, che finiscono nel 1743 con un eccetera, eccetera, e i mémoires scritti in francese, che ci dicono di lui sino al 1790. Le sue lettere, alcune vere e proprie prefazioni alle commedie, certamente contribuiscono a completare l’immagine di Goldoni. Goldoni, nonostante tutto, rimane un uomo molto segreto, pieno di pudori: lascia intorno a sé zone di mistero, che il lettore o colui che cerca di capire chi è, deve un po’ decifrare e un po’ inventare sulle tracce lasciate. In realtà Goldoni fu un uomo estremamente tormentato che condusse una continua e terribile lotta con se stesso. Credo avesse la civetteria di sembrare un uomo allegro, contento, molto saggio, e abbia continuato ad alimentare la leggenda di essere nato senza piangere: «Dice mia madre che io non piansi quando nacqui…», e incomincia così a raccontare fantasie. «Per me, in fondo, qualunque cosa mi capiti sono sempre calmo, imperturbabile e poi vado a dormire ogni sera tranquillo» – pausa – punto. Capitolo dopo: «Fui assalito dai miei soliti vapori neri. Erano questi angosce e una sorta di impossibilità a muovermi: non potevo né mangiare, né scrivere, né leggere, restavo così sul letto…». Dieci pagine dopo: «Io ebbi sempre un animo gaio…». Non era vero. Era un uomo che aveva i suoi drammi come tutti gli altri. Ebbe la mania, inoltre, di far credere di essere un uomo molto fedele alla moglie e poco incline ad apprezzare le donne. Invece fu un grande amatore ed ebbe molte avventure. Comunque, Nicoletta, moglie fedele, che dovette subire molti torti, fu una compagna che seppe capirlo. E, infatti, in una lettera Goldoni scrisse: «Ella, con la sua bontà, con la sua semplicità, con la sua intelligenza, seppe sempre capire e tacere». Sono frasi agghiaccianti, queste. Ma credo che proprio questa coppia fosse estremamente moderna. Mi sembra importante anche ricordare che Goldoni non ha mai scritto il nome dei suoi nemici. Nei Mémoires dice: «E per quanto si attiene ai miei nemici, di essi non farò il nome». Non aggiunge, però: «Perché son talmente indegni che io non voglio neanche immortalarli nei miei Mémoires con il loro nome!». Noi sappiamo che i suoi nemici avevano un volto, un nome e un cognome. Il suo sistema nervoso era molto teatrale, aveva molte debolezze. Era un po’ goloso, come lui stesso ammette, e, forse, un grande giocatore. Nel ‘700 la gente giocava molto e, nel caso specifico, si diceva che Goldoni fosse uno scialacquatore e si fosse rovinato al gioco. Una cosa è certa: Goldoni giocò molto, come giocavano molto tutti, soprattutto a Venezia nel ‘700. Ma se pensate che ha scritto duecento commedie mettendole in scena, non poteva avere il tempo di essere anche un grandissimo giocatore e di passare le notti al casinò o al ridotto.
Comunque, la chiave veramente importante per capire Goldoni è contenuta in una semplice frase, nel VI tomo delle edizioni Pasquali, cioè nel cuore delle sue memorie italiane, opera rimasta incompiuta: «Le due guide alla vita, io le ho studiate sui miei due libri: mondo e teatro». Credo che non ci sia una dichiarazione più chiara di un programma. Il mondo. Cos’è il mondo? La vita concreta. I rapporti fra le creature umane. L’esistenza di una coralità di azioni e di reazioni nel movimento incessante delle creature che lo popolano. La cosa più straordinaria è la ricchezza del suo cosmo: uomini, giovani, vecchi, di cui alcuni non tanto importanti, né sconvolgenti. Tutti insieme, però, costituiscono una specie di cosmo meraviglioso della vita umana, con i suoi difetti, le sue cose belle, le tenerezze, le asprezze, le incapacità di capire, le capacità di capire, di amare, di non amare. Insomma, questo mondo variegato e diverso è “il mondo”. Naturalmente è il suo mondo, quello che ha vissuto, ha visto, e che non può essere racchiuso in una sola persona. In questo senso, nulla è più lontano da Molière di quanto non lo sia Goldoni. Molière è stato un genio che ha saputo darci alcuni caratteri fondamentali, immortali figure dell’avventura umana. Intorno a questi, altri personaggi che agiscono e che hanno qualcosa da dire. Ma in fondo l’avaro è l’avaro, come il misantropo è il misantropo e il malato immaginario non è altri che se stesso: poi vengono tutti gli altri. In Goldoni questo protagonista drammatico, tragico, comico, comico, tragico, drammatico, intorno al quale ruota un piccolo mondo, non esiste: c’è il mondo di tanti altri e in più il suo. Il teatro, per Goldoni, è un mezzo d’arte preso per vocazione e vissuto implacabilmente come missione: la missione di comunicare con il mondo attraverso il teatro e i suoi interpreti. Così Goldoni considera il suo destino di autore di teatro come quello di chi parla del mondo soltanto con il teatro e vive il teatro soltanto come parabola o parafrasi del mondo. Goldoni fu un autore di teatro, un letterato, uno che scriveva per il teatro e nel medesimo tempo faceva teatro. Le due cose andavano insieme. Nei miei Mémoires è presente una scena in cui la prima attrice chiede a Goldoni: «Ma chi te l’ha fatto fare di scrivere sedici commedie nuove in un anno?». Il racconto che Goldoni fa, e che risponde certamente alla realtà, spiega l’episodio. La compagnia che lui dirigeva recitava tutte le sere. Si andava in scena a Carnevale, poi c’erano le feste di Natale con la sospensione delle rappresentazioni, e quindi si ricominciava dal 15 gennaio fino alla fine del Carnevale successivo. In ogni stagione si recitavano sempre quattro, cinque commedie, tra nuove e vecchie. L’ultima commedia del ‘56, L’Erede fortunata, andò molto male. All’epoca, la gente fischiava a teatro e il pubblico era molto reattivo. In quell’occasione era giunta la notizia che Darbes, un suo compagno, grande Pantalone e amico intimo, se ne andava in Polonia. La partenza di questo Pantalone molto amato a Venezia e il fiasco della commedia portarono improvvisamente la compagnia di Medebac alla rovina: il teatro sarebbe stato vuoto per la stagione di Carnevale successiva. Non si sapeva più cosa fare e allora Goldoni scrisse un piccolo sonetto e lo diede alla Medebac perché lo leggesse al pubblico. La Medebac prese il foglio e lesse: «E il prossimo anno il nostro poeta ve darà sedici commedie tutte nove, scritte l’una dopo l’altra»; e, mentre leggeva, probabilmente era presa dal terrore. «Ma chi te l’ha fatto fare, ma ci hai messo anche i titoli, come facevi a mettere i titoli?». Goldoni confessò con calma: «Io scrissi i titoli di alcune commedie perché le avevo già in mente, sugli altri titoli poi scriverò le commedie». E insomma disse che avrebbe dato l’anno successivo sedici commedie in tre mesi. Voi capite che sedici commedie richiedono uno sforzo enorme. Goldoni fece le sedici commedie, sedici spettacoli.

Nell’arte, il messaggio, la comunicazione, il senso dell’opera e il suo godimento sono in un rapporto strettamente dialettico. Senza questo rapporto, non esiste arte. La mancata comprensione di questo rapporto ha creato un equivoco sempre più penalizzante per l’opera di Carlo Goldoni. L’equivoco, per esempio, del moralismo, della piacevolezza sempre sorridente, del gioco comico musicale e di tutta la sua teatralità. Queste sono posizioni errate. Se si pensa che, nella dedica alla Donna di Governo, si dice: «Il vero non si può nascondere»; e nei Rusteghi: «Ma più di tutto mi accertai che sopra del meraviglioso la vince nel cuore dell’uomo il semplice e il naturale». […] Che cos’è l’onestà dell’artista? La sincerità. Capire il reale, innalzarlo a fatto d’arte, per divertire, cioè per far amare, con sincerità, senza artifici, senza ricorrere ai vari meravigliosi, ma cercando la semplicità, la naturalezza del calore, della partecipazione affettuosa, del destino degli altri, che è il carattere fondamentale del lato creativo. E qual è, dunque, la filosofia di cui mi sono servito: «Quella che abbiamo impressa nell’anima, quella che dalla ragione viene insegnata, quella che dalla lettura e dalle osservazioni si perfeziona, quella che infine dalla vera poesia deriva, non già bassa poesia che chiamasi versificazione, ma dalla poesia sublime che consiste nell’immaginare, nell’inventare, nel vestire le favole di allegoria, di metafore e di mistero» dice Goldoni.

Questo piccolo pezzo di confessione estetica di Goldoni è di una complessità tremenda, perché, da una parte, spiega che bisogna partire dal vero, ma il vero soltanto non basta, bisogna innalzarlo, ma innalzarlo con forza poetica, per arrivare a immaginare, inventare, a vestire le favole. Le favole sono le trame, le storie di allegorie, di metafora e di mistero.

Voi capite, quando facciamo Il campiello, ogni sera sentiamo qualcosa che pochi sentono: c’è una zona di mistero nell’opera di Goldoni, una traccia poetica non definibile. Sentiamo che c’è una estrema verità di rapporti ma anche qualcosa di più. Pensate sia un caso che Le baruffe chiozzotte si svolgano in un piccolo paese di mare, vicino a Venezia, dove la gente continua a litigare e continua ad amarsi, non amarsi, capirsi, non capirsi, dove tutto è incerto? No, tutto questo mobilitarsi si svolge stranamente in un giorno, in una città completamente avvolta dal mare, dalla natura, dal vento, e voi capite che questa è una simbologia: una piccola isola come Mondo in cui gli uomini vivono la nostra vita, sempre fatta di incertezza. Ci sarà sempre una lite, ci sarà sempre un’incomprensione, ci sarà sempre un incontro d’amore, ci sarà sempre una persona che non capiremo. Ci sarà sempre tutto quello che c’è nelle Baruffe chiozzotte: la variabilità eterna degli animi umani che si amano, non si amano, si capiscono, si vogliono bene, non si vogliono bene, senza mai fine. In Goldoni esiste sempre una grande proiezione simbolica del destino dell’uomo. Ecco perché il piccolo Goldoni che parla di questa coralità dell’uomo, che parla con la gente dell’uomo nella sua verità, a poco a poco finisce per innalzare queste piccole verità alle soglie dell’universalità. Gozzi e gli altri nemici del Goldoni non capirono assolutamente niente di tutto ciò. Dicevano che copiava la verità, stenografava il dialogo della povera gente e che la sua non era poesia.

Goldoni non poteva non urtarsi col problema della lingua. Ha scritto molte commedie in lingua italiana; molte le ha scritte in dialetto, alcune in dialetto e in versi, alcune in italiano. Dico commedie genericamente, perché Goldoni è stato anche autore di tragedie. Ha toccato tutti i modi della lingua affrontando il problema della realtà del colto, del mediamente colto, o del popolare, cioè della lingua letteraria e della lingua parlata, della lingua del palcoscenico, dove uomini e personaggi parlano tra loro. Goldoni si è domandato quale lingua dovesse far parlare, se una lingua convenzionalmente toscana, oppure una lingua tendenzialmente mediata con cadenze e immissioni coraggiose di espressioni dialettali di parole, di modi e usi dell’Italia. Una lingua in qualche modo inventata, che si parla a Venezia, sì, ma anche a Milano, a Ferrara, e così via. E la scelta di Goldoni non lascia dubbi, perché fu sempre contro quella lingua che si potrebbe definire toscaneggiante e colta, classica. Goldoni risponde con un insieme di opere in una “lingua” che è vera e inventata: opere in dialetto, in prosa e in versi, e addirittura un testo in sotto-dialetto che è il dialetto di Chioggia. Queste opere stanno accanto a quelle in lingua italiana e non con tono minore. Io penso, caso mai, con un tono maggiore, come un polo irraggiante, insostituibile e, in molti casi, come un polo di una dialettica teatrale, che è poi la dialettica storica di costume morale. In poche parole, credo che noi abbiamo due lingue: una lingua con la quale comunichiamo con la gente e poi una lingua con la quale comunichiamo a noi stessi, o parliamo con le persone intime. Io, a mia madre, non ho mai potuto dire: «Ti voglio bene»; le ho sempre detto: «Te vojo ben». A noi giovani attori, in un’epoca in cui non c’erano scuole, i vecchi attori, quando non riuscivamo a pronunciare alcune battute, dicevano: «E tu dilla a bassa voce, la prima volta». E già incominciavamo ad andare meglio. E poi se non si riusciva ancora: «Ditela in dialetto». E allora si recitava il monologo dell’Amleto in dialetto. E in questo gioco Goldoni è arrivato a sottigliezze estreme. C’è una commedia, La putta onorata, in cui ci sono due mondi; da una parte il mondo dei marchesi, dei nobili, dall’altra, quello dei barcaioli. Bettina serve gente povera e gente ricca. La gente ricca si odia, si avvelena, la gente povera vive come può e il marchese si invaghisce della giovane Bettina. In scena, tutti quelli che stanno sulla destra parlano in lingua, mentre tutti quelli a sinistra parlano in dialetto; perciò, quando il marchese tenta di sedurre Bettina, lo fa “parlando italiano”, ma Bettina gli risponde in veneto. Qui si capisce con che sottigliezza e semplicità venga affrontato questo problema di fondo del teatro italiano. I due gruppi, parlando due linguaggi diversi, non stabiliscono mai un vero contatto e non soltanto perché non sono d’accordo: non si capiscono perché non parlano la stessa lingua.
Infine interessante accennare al problema della riforma. La riforma di Goldoni è stata quella – dicono – di opporre il testo scritto al testo improvvisato. Questo modo di recitare “all’italiana” è tutto nostro. In pratica, le compagnie erano composte da attori bravissimi che erano anche letterati e improvvisavano basandosi su canovacci, storie, avventure. Questo modo di fare teatro durò un secolo e mezzo. Ma andando avanti nel tempo, dopo che gli attori più bravi erano morti, sostituiti dai figli e nipoti, tutta questa improvvisazione si era trasformata in una specie di ripetizione, perché gli attori della Commedia dell’Arte tendevano ora molto spesso a scrivere le loro battute. In duecento anni, questa ripetizione era diventata una specie di zibaldone che gli attori si tramandavano di padre in figlio, custodendolo come un segreto. Gli attori, perciò, improvvisavano, sì, ma ripetevano più o meno le stesse parole. E così l’improvvisazione aveva un limite, anche se ogni sera cambiava qualcosa. Una Commedia dell’Arte irrigidita, informe, con parole codificate ormai da un secolo e mezzo circa; una commedia in parte improvvisata e, per il resto, catalogo di convenzioni e di realtà testuali codificate.
Il teatro della riforma, con la sua verità sostanziale che lo rende europeo e mondiale, risolve un problema effettivo. Questo è il segreto, il mistero e il grande senso della riforma: è la creazione del primo grande teatro nazional-popolare italiano. È così che se qualcuno va a recitare le Baruffe a Copenaghen, e se le recita bene, le Baruffe scritte in un sotto-dialetto italico-veneziano, proprio perché affondano nelle radici nostre, di noi italiani, attori italiani, di gente italiana, immediatamente diventano una specie di punto di riferimento di un altro mondo. Ed è questo il grande concetto gramsciano della realtà popolare nazionale che diventa di per se stessa, appunto perché nazionale e popolare, universale. Questo per me è un altro grande merito di Goldoni.
Goldoni mi ha insegnato che la vita è sorprendente, e che non bisogna mai aspettarsi le cose immutabili, perché nella vita tutto cambia: mai nessuno è cattivo fino in fondo, mai nessuno è buono fino in fondo. Occorre sempre vivere con estrema attenzione, con estrema comprensione degli altri, perché siamo tutti in movimento, un moto molte volte impercettibile, che ci fa modificare e ci modifica. Goldoni mi ha dato questa sensazione. Mi ha insegnato anche il coraggio, il coraggio della missione e della vocazione, che non deve essere un programma scritto, ma un programma interiore: fai questo perché non puoi fare altro. Questa è una cosa molto importante, sapere che siamo tutti importanti, anche se non riusciamo a esserlo abbastanza, anche se non abbiamo la grande luce dei riflettori sopra di noi; sapere che una società decente non è fatta da sette grandi uomini e da sette grandi donne, ma da milioni di uomini e donne per bene, intelligenti abbastanza, colti abbastanza, umani abbastanza. Da questi nascerà qualcuno che andrà avanti più di altri. Nessuno nasce nel vuoto, così, in un paese senza cultura, dove non ci sia amore, dove non ci sia entusiasmo, dove non ci sia nulla. Non aspettiamoci mai il genio che risolve. A me Goldoni ha insegnato soprattutto questo e quindi mi ha riscaldato il cuore, con la certezza che vi può essere altro, ma non ci può essere teatro, non ci può essere rappresentazione, non ci può essere niente senza che il valore dell’umano non regga e non illumini continuamente il nostro cammino. Senza quella luce non c’è niente.

Goldoni e il Teatro, intervento letto in occasione del conferimento della laurea honoris causa, Universitat Autònoma de Barcelona, 26 giugno 1995 – Archivio Piccolo Teatro di Milano; pubblicato in “Quaderns d’Italià”, 2, 1997

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