«È il teatro che riscopre una sua epoca gloriosa: la Commedia dell’Arte non più come un fatto intellettuale, ma come un esercizio di vita presente, operante. Con questo spirito si svolge, dunque, la ricerca di Strehler e della compagnia differenziandosi da operazioni precedenti: per il pubblico Arlecchino vuole essere quella forma di puro divertimento che, prima di avviarsi sul difficile cammino della “riforma”, Goldoni lasciò, a memoria di un’epoca favolosa ed estinta, con quella misura propria dei Classici. Commedia, dunque, di grande tradizione comica, passaggio tra la commedia dell’arte e la commedia scritta; ultima affermazione della maschera per opera di chi le maschere bandì poi dal teatro, l’Arlecchino, al suo apparire nel 1746, ebbe subito un’invidiabile fortuna. La commedia fu scritta da Goldoni su richiesta del famoso Truffaldino Antonio Sacchi, che pare gli abbia proposto anche lo spunto, forse desunto dallo scenario intitolato Arlequin valet de deux maîtres, che il capocomico Luigi Riccoboni aveva recitato e raccolto poi nel suo Nouveau Théâtre Italien. Composta in origine non per intero (solo in un secondo momento Goldoni la completò) ma nelle sue scene principali e serie, lasciando ai comici la facoltà di integrare improvvisando quelle comiche, si diffuse trionfalmente in Europa dal Teatro di Weimar diretto da Goethe che ne era entusiasta, fino alle recite dei primi anni Quaranta al Teatro di Leningrado. In Italia questo testo era stato legato ai nomi di Carlo Leigheb e Antonio Gandusio. A Milano era ricomparso alla fine degli anni Trenta sulle scene del Teatro Manzoni con la regia di Max Reinhardt e la parte di Arlecchino affidata a Hermann Thiming. È un’impresa difficile – Strehler lo sa bene – per degli interpreti contemporanei tuffarsi nel favoloso mondo di un’avventura teatrale legata ad esili trame, a complicate storie giocate tutte sul gesto e sulla parola dell’interprete e quindi bruciate da tempi immemorabili, polvere di palcoscenico da secoli.
E ai più appare un pericoloso esercizio tentare una tecnica teatrale ricchissima di mezzi espressivi, di eclettismi, di padronanze fisiche e vocali.
Scrive in proposito Paolo Grassi: “Ci siamo trovati nel vuoto e abbiamo dovuto compiere le nostre acrobazie senza rete di protezione. Abbiamo insomma dovuto ‘reinventare’ dentro di noi qualcosa, al di là della cultura e della storia. In questa fatica ci ha sorretto una vena sotterranea che credevamo quasi estinta per sempre: un abbandono italico al ritmo, all’invenzione immediata, al gesto mimico, all’iperbole dell’immagine, insieme a un classico rigore - e sono rifluiti in noi antichi umori che non si erano perduti attraverso le generazioni teatrali”.
Nella messa in scena di Strehler e nella interpretazione di Marcello Moretti, dunque, Arlecchino si agita incessantemente dando alla commedia la vorticosa velocità della giostra. Tutto gli gira intorno: gli amori di Florindo e Beatrice, quelli di Clarice e Silvio, le ire di Pantalone, le amenità di Brighella. Quando la giostra si ferma le coppie sono ricongiunte e Arlecchino sposa Smeraldina. La commedia raggiunge il suo culmine al secondo atto nella scena in cui Arlecchino, prendendo al volo i piatti che gli gettano i servi della locanda, serve il pranzo contemporaneamente ai due padroni, correndo dall’uno all’altro all’insaputa d’entrambi, nella speranza di rimediare qualcosa per la sua fame. Ma è particolarmente significativa anche la scena dei bauli del terzo atto, in cui Arlecchino, incaricato di dar aria ai panni da entrambi i padroni, finisce col confondere gli abiti dell’uno con quelli dell’altro e, per lo stupore di fronte alla rivelazione che Beatrice è donna, finisce col cadere dentro al baule, da cui uscirà con indosso il camicione della ragazza.
Traditosi poi per la sua voglia di sposare Smeraldina, al servo dei due padroni non resta che scappare giù in platea, rincorso da tutti gli altri per poi rientrare a scena vuota a dire il suo “congedo” al pubblico.
In questa prima edizione, la scena è piuttosto stilizzata: quinte e fondale fissano in linee geometriche l’idea di una Venezia un po’ astratta; un praticabile alza dal livello del palcoscenico il luogo dell’azione. Stilizzati sono anche i costumi: le pezze multicolori del costume di Arlecchino sono soltanto disegnate a grandi triangoli ed egli porta, come Pantalone, il Dottore e Brighella, la maschera disegnata sul viso».
Tullio Kezich, Ritratto d’attore, in Marcello Moretti, Milano, Tecnografica Milanese, 1962 Quaderni del Piccolo Teatro, 4