Può uno spettacolo trasformarsi nella bandiera di sessant’anni di vita di un teatro? Sì, se si tratta del sempreverde Arlecchino, del magnifico Arlecchino, dell’umanissimo Arlecchino che porta l’impronta irripetibile di Giorgio Strehler, che è stato di Marcello Moretti e che è ancora di Ferruccio Soleri. Ma non guardiamo a questo spettacolo come a un reperto da museo, frigido e imbalsamato nella sua lontana perfezione. Anzi, quello che sta alla base della fortuna incredibile del Servitore di due padroni (che è poi il suo vero titolo) e che lo rende praticamente comprensibile a tutte le latitudini e agli spettatori di diverse civiltà, è proprio la sua inarrestabile, inguaribile vitalità. Facile, direte voi: forse che non si tratta di un testo attraverso il quale Goldoni chiude i conti con la tradizione della Commedia dell’Arte e si avvia alla fortunatissima epoca del teatro del personaggio? Tutto vero. Ma perché allora la stessa sorte non è toccata a uno dei tanti, grandi spettacoli shakespeariani messi in scena da Strehler?
Il segreto di Arlecchino
Il segreto della fortuna mondiale di Arlecchino, della sua capacità, che oggi definiremmo mediatica, di catturare spettatori di qualsiasi generazione e cultura sta forse nel “segreto” di Carlo Goldoni scrittore di teatro: saper concentrare la genialità drammaturgica pescando i suoi soggetti nei libri della Vita e del Teatro. Vita e sua rappresentazione, dunque, all’interno del cerchio magico del palcoscenico, specchio del mondo nel quale intere generazioni di attori e di spettatori si sono riconosciuti. L’altro motivo sta nella capacità del suo regista creatore, Strehler, di saper reinventare e reinventarsi, ogni volta, questa storia di intrighi e di maschere, di fame e di difficoltà dei sentimenti. Soprattutto, sta nella capacità del regista di trovare ogni volta gli interpreti giusti, di cogliere lo spirito del tempo, proponendo ed esplicitando in questo spettacolo la sua caratteristica di lavoro in divenire, di considerare Goldoni come un autore “strategico” nella produzione del Piccolo Teatro, restituendo agli spettatori l’apparente facilità del trasformare il Mondo in Teatro. Sembra facile, ma non lo è. Certo non è un caso che, a partire dal 1947 fino al 14 maggio del 1997, in occasione del Cinquantenario del Piccolo Teatro, sia stato proprio Arlecchino a restare accanto a Strehler, croce e delizia della sua vita di regista, spettacolo amato-odiato. E che sia stato proprio Arlecchino l’ultimo spettacolo “finito” che ci ha lasciato, prima della sua scomparsa, malgrado la febbrile ansia creativa che lo ha portato, nel giro di tredici giorni, a concretizzare le grandi linee della messinscena di Così fan tutte di Mozart. Prima fra tutte le sue grandi regie goldoniane, dunque, Arlecchino ritorna nella vita del Piccolo, e in quella di Strehler, a intervalli quasi regolari, con ben dieci edizioni, nei momenti nodali della storia del primo Stabile d’Italia.
Un filo rosso
Uno spettacolo che riveste i caratteri dell’eccezionalità, un filo rosso che attraversa cinquant’anni tumultuosi nella vita del teatro italiano. Un vero e proprio “romanzo”, che segnala i giri di boa nella storia del Piccolo, ma anche quelli all’interno della vicenda umana e artistica di Strehler. Dieci edizioni, dove i volti e le voci degli interpreti si confondono: Moretti, Soleri, Maestri, Zareschi, Asti, Pepe, Tedeschi, Mauri, Parenti, Carraro, De Lullo, Graziosi, Rissone, Cortese, Jonasson, Lazzarini, Dettori, Minelli, Bonati… fino ai giovani attori che lo hanno interpretato per la prima volta nel 1990, parte dei quali, ancora oggi, in questa che chiameremo la sua undicesima edizione, la prima senza Strehler, continuano e recitarlo accanto a Ferruccio Soleri e, fino al 2000, accanto a Gianfranco Mauri. Indimenticabile la sera del marzo 1998, a pochi mesi dalla scomparsa di Strehler, al Théâtre de l’Odéon di Parigi, con il pubblico francese in piedi nella standing ovation, durata per quindici minuti, ai vecchi e ai giovani interpreti, alla freschezza dello spettacolo e alla memoria del suo creatore.
Riappropriarsi della Commedia dell’Arte
In un cartellone come quello del 1947 – che getta le basi delle future scelte del Piccolo e che è una vera e propria dichiarazione d’identità per le coraggiose scelte drammaturgiche dei giovani Grassi e Strehler – Arlecchino significa la riappropriazione di un passato segnato dalla storia della Commedia dell’Arte.
Ma è anche l’incursione inaspettata, sul palcoscenico, dell’assurdo nella sua forma più piana ed assoluta, che non spaventa: è il recupero della teatralità pura delle origini. La tradizione, non quella smarrita del “grande attore”, ormai tramontato, bensì quella perduta, fantastica, sulla quale aveva già cominciato a interrogarsi la grande regia europea, a partire da Max Reinhardt. La riscoperta di una tradizione di cui si è allontanata la memoria significa, dunque, proprio negli anni in cui la regia sta prendendo piede in Italia, un libro tutto da inventare e da scrivere, con un linguaggio nuovo, nato non solo dalle parole, ma dai corpi e dai gesti degli attori. In quel lontano 1947, Strehler ricerca le tracce delle tecniche smarrite dei comici italiani, il modo di punteggiare e di sincronizzare l’azione con la parola, di ritrovare l’espressività del gesto in ritmi giocosi e sfrenati, non come pedissequa ripetizione di schemi, ma come invenzione assoluta. E se a qualcuno quel primo Arlecchino sembra fragrante come un gelato alla fragola, altri parlano di ricerca antropologica vera e propria. Senza dubbio, è una palestra formidabile, che impone anche il confronto con la maschera, che è la prima, e forse inconsapevole, incursione di Strehler nel cosiddetto effetto di straniamento ricercato nella scena semplice di Gianni Ratto: una pedana delimitata da fondali e quinte dipinte, cambiate a vista dagli stessi attori. Marcello Moretti, che è il primo Arlecchino a calcare le scene italiane del dopoguerra, rappresenta la tipologia nuova di attore fuori dalla tradizione, alla ricerca consapevole di se stesso, formato dall’Accademia di Silvio D’Amico. Il suo primo Arlecchino ha una maschera dipinta sul viso, mentre i suoi compagni, da Franco Parenti ad Antonio Battistella, portano sul volto maschere scomode, anche pesanti e dolorose, fatte di cartapesta e garza.
La maschera da gatto
Più tardi, però, anche Moretti-Arlecchino cade nel sortilegio e indossa la maschera, che Amleto Sartori gli ha preparato, come una condanna e non se la toglie più. Bisognerà aspettare il 1952 perché le scene di Ratto si definiscano con più eleganza, proponendo lo spazio di un teatrino di comici del Settecento. Anche Arlecchino, che ora porta la maschera da gatto, è cambiato e per la prima volta indossa un costume stilizzato a piccoli triangoli. Mutamenti non esteriori, ma nati da una necessità interna allo spettacolo, che si va definendo come una gabbia, allo stesso tempo rigorosa e ricca di libertà, con un ritmo calcolatissimo che ha la suprema furberia di non farsi avvertire.
Teatro nel teatro
È però nel 1956, nella cosiddetta “edizione di Edimburgo”, che Arlecchino subisce un mutamento radicale, grazie anche al cromatismo e alla sapienza spaziale di Ezio Frigerio che firma le scenografie: una piazza italiana coperta da un velario che ripara dal sole, gli attori che recitano, nei modi della Commedia dell’Arte, nella cornice quotidiana di una compagnia di comici. Si sviluppa, così, quella spinta al teatro nel teatro che, d’ora in avanti, sarà la caratteristica portante di Arlecchino. Strehler, infatti, costruisce lo spettacolo proprio esaltando quel rapporto Vita e Teatro di cui si diceva all’inizio, con gli attori che si tolgono la maschera quando escono di scena. Quasi fosse un imperativo categorico per il regista, reduce dagli appuntamenti con Brecht e con Bertolazzi, rileggere Arlecchino.
Soleri protagonista
Fra la terza e la quarta edizione di questo spettacolo c’è anche la cesura, drammaticamente dolorosa, della morte di Moretti, avvenuta nel 1961, quando già il giovane Ferruccio Soleri, anche lui formatosi all’Accademia Silvio D’Amico e poi accanto a Moretti, dopo un severo apprendistato, è pronto ad assumere, da protagonista e non da sostituto (come nella tournée americana della stagione 1959/60), il ruolo di Arlecchino. Quali le differenze fra le due interpretazioni, al di là delle ovvie diversità di personalità e di mezzi? L’Arlecchino di Moretti si rifà ai grandi creatori di un tempo, al loro spirito, liberamente inventivo, pienamente in grado di sfruttare tutta la carica espressiva, non solo della parola, ma del corpo e del gesto. Un Arlecchino, il suo, che, per la prima volta, non nasce nel teatro di tradizione e neppure all’interno di compagnie dialettali, ma che è il risultato di una scuola diversa, di uno studio dello stile comico fondato sulla ricerca e sull’impegno filologico, come si conviene a un teatro in cui il peso e il ruolo del regista, oltre che quello dell’attore, vogliono dire esercizio critico, ricerca di un modo di recitare all’italiana. Nel ritmo che ha del prodigioso, e che dopo le prime edizioni si è stemperato in un approfondimento psicologico della maschera, Moretti ne assimila le convenzioni al punto che diventano naturali, grazie a uno stile che le trasforma in insostituibile modo di vivere. Un umorismo candido e sornione al tempo stesso, bonario e furbesco, estroso e infallibile. Eppure, la sua maschera nasconde un continuo assillo, e il suo tormento artistico si confonde con quello personale, perché è l’esibizione sul palcoscenico a dominare la sua vita. Dice Tullio Kezich, in un suo ricordo dell’attore, che Arlecchino e Moretti danno l’impressione di stare diventando lentamente una persona sola. Protetto dalla sua maschera, l’attore vince i suoi complessi e si scatena: c’è – è sempre Kezich a dircelo – qualcosa di magico, di diabolico, in questa trasformazione. Poi Arlecchino, cresciuto nel soffio vitale, nel guizzo acrobatico e poetico di Moretti, da cui ha succhiato la calma ponderata, la riflessività, la malinconia, incontra il giovane attore toscano Ferruccio Soleri. A lui tocca un compito all’apparenza impossibile: sostituire nel cuore, negli occhi, nell’immaginario degli spettatori, ma anche di Grassi e di Strehler, l’Arlecchino di Moretti, al quale è stato vicino, spiandolo fra le quinte, impegnato all’inizio nel ruolo del camerierino e poi come sostituto. Soleri ha sempre sostenuto che l’Arlecchino non gli è venuto da Moretti, che non gli ha mai comunicato il suo “segreto” e che si è limitato a prepararlo per entrare in un disegno spettacolare già prestabilito, ma da Strehler, che ha avuto l’intelligenza e il coraggio di voltare pagina, di non cercare di imporgli gli stessi stilemi. La personalità, la giovinezza, la fisicità più prorompente di Soleri, il suo gusto e la sua propensione per l’acrobatica spingono il regista, non solo alla ricerca di nuovi lazzi, da aggiungere o da sostituire a quelli canonici di Moretti, ma anche a rivoluzionare totalmente l’impianto dello spettacolo. Un Arlecchino, quello di Soleri, che è andato via via prendendo forma non solo come fatto personale, ma anche come sensibilizzazione di una particolare situazione umana, di un’epoca. Ecco perché il Batocio di Soleri, pur partito dalla grande lezione di Moretti, si è venuto via via storicizzando, trasformandosi nell’immagine di un uomo in lotta fra due mondi – i suoi due padroni? – con tutte le sue contraddizioni, le sue furberie, le sue astuzie, le sue ruffianerie, dette con una voce non realistica che si sposa perfettamente con la maschera grintosa e giovane da gatto e che lo spinge a interiorizzare quello che dovrebbe sentire il corpo, con il vantaggio di potere guardare il mondo come dal buco della serratura, mentre gli altri non possono cogliere le sue emozioni.
Un miracolo di energia
È un miracolo di energia creativa che ha affascinato molti teatranti, come Peter Brook e Patrice Chéreau. Nel 1963, a Villa Litta di Affori, nell’edizione cosiddetta “dei carri”, povere case di attori girovaghi che si sono fermati in un prato, mentre i cavalli sono stati staccati, portati via, Soleri può interpretare l’Arlecchino che Strehler ha pensato per lui. Due piccoli luoghi scenici, posti quasi uno di fronte all’altro, in mezzo ai quali gli attori hanno rizzato una pedana-palcoscenico, delimitata da un lato dagli schermi per le candele, trasformate in luci della ribalta, e dall’altro da montanti, su cui scorrono i fondali che fanno da scena, ne costruiscono l’ambientazione. L’edizione del 1973, pensata sempre per essere recitata all’aperto (alla Villa Comunale di Milano), ripropone figurativamente lo stesso impatto di dieci anni prima, ma si segnala e si differenzia per l’approfondimento compiuto da Soleri nel ruolo di Arlecchino fra fisicità pura e calcolo, fra l’ineluttabile destino della vittima e gli intriganti giochi di un maestro d’imbrogli. Un punto d’arrivo presto abbandonato, perché bisogna riprendere ancora una volta quell’eterno viaggio dei comici che da secoli è il loro destino e che questo spettacolo visualizza. Nasce così l’Arlecchino detto dell’Odéon, dal teatro di Parigi in cui è stato rappresentato per la prima volta (1977).
Le ultime edizioni
È un Arlecchino più cupo, autunnale, storia di un gruppo d’attori affamati che stanno tornando in Italia da Parigi. Cacciati dalla capitale, giungono a un castello abbandonato, dai muri sbrecciati. In un angolo, nelle stanze buie, un cavallo di pietra ricorda una vecchia statua equestre. Ma ecco arrivare dei contadini e per loro, alla luce fioca dei candelabri, questi attori ripropongono i propri personaggi… Viaggio nel buio e pessimistica autorappresentazione (è il teatro che si auto esilia dal mondo), quando tutto sembra perduto, ecco Arlecchino abbandonare il palcoscenico e fuggire fra i palchi, inseguito dagli attori, per essere poi addirittura assunto in cielo su di una magica nuvola bianca. Un “anticipo” su quell’incontro con il teatro come macchineria barocca, come arsenale delle meraviglie che, proprio in quella stagione, con ben altra profondità, Strehler porrà al centro della Tempesta di Shakespeare. Mai fedele a se stesso, irriverente anche nei confronti della propria fama, l’Arlecchino che, in occasione del quarantennale, nel 1987, sale sul palcoscenico del Piccolo, vuole, nella assoluta purezza della scena e del gioco scenico, testimoniare al pubblico il senso di una storia e di una ricerca teatrale. La scena di Ezio Frigerio è illuminata dalle fioche candele alla ribalta. Pochi oggetti consunti dall’uso sono sufficienti a questi comici non più giovani per recitare, sotto il trucco che non nasconde le rughe, l’eterna commedia del Servitore di due padroni. Una misteriosa, impalpabile lanterna magica, una luce cupa – una sola candela – spinge gli attori ad andare avanti…
È l’edizione detta “dell’Addio”, ma nel 1990 brilla una vita nuova anche per l’Arlecchino, che verrà detto “del Buongiorno”, saggio finale del corso Jacques Copeau della Scuola di Teatro del Piccolo. Più interpreti che si confrontano, con la raffigurazione di più compagnie raccolte attorno al “vecchio” maestro Ferruccio Soleri. Trentadue attori a disputarsi dieci ruoli, in un disordine vitale. E se l’Arlecchino del Bicentenario goldoniano non sarà firmato da Strehler, che l’aveva pensato come un omaggio a Mejerchol’d, e sarà trasportato per l’occasione nella pianta ellittica del Teatro Studio, a diretto contatto con lo spettatore, quello del Cinquantenario, presentato al Piccolo il 14 maggio del 1997, lo vedrà confrontarsi ancora una volta con uno spettacolo che il record di essere il più rappresentato nella storia di tutti i tempi non ha assolutamente appannato. Un’orgogliosa e consapevole dimostrazione dell’idea di un teatro fatto per gli uomini, i giovani attori attorno a Soleri e a Mauri, che interpreta il ruolo di Brighella, e il regista in mezzo a loro a ringraziare il pubblico, che non può certo immaginare che sarebbe stata l’ultima volta. Poi via, in giro per il mondo, perché gli spettacoli vivono oltre la vita dei loro creatori e interpreti. Ed eccolo qui di nuovo, oggi, sotto lo sguardo vigile di Ferruccio Soleri, che di quella storia, allo stesso tempo mitica e fortemente reale, è l’incarnazione vivente. L’Arlecchino del Nuovo Millennio, l’undicesima edizione di questo spettacolo sempre antico e giovane, orgoglioso della sua storia, guarda anche al presente. Scomparsi il suo creatore e un interprete fondamentale come Gianfranco Mauri, può però contare sempre sulla stupefacente presenza di Ferruccio Soleri e su di un gruppo affiatato di giovani attori. Nelle scene pensate da Ezio Frigerio come un’evocazione di atmosfere strehleriane, questo Arlecchino che viaggia per l’Europa recupera da antiche edizioni la pedana, le quinte dipinte e il velario che ripara i comici dal sole. La sua vita va al di là di quella del suo regista creatore, grazie alla presenza carismatica di Ferruccio Soleri che ne è la memoria vivente. E che ne garantisce, con ricchezza di significati e di agnizioni, la lunga, irripetibile vita: un passato mitico, un presente formidabile, un futuro che non si conosce.
È lui che severamente, ma con passione, guida quella vera e propria bottega di teatro che è diventata Arlecchino: uno spaccato di generazioni di attori, un passaggio di ruoli, un sapere e un essere del teatro da tramandare e che Strehler ha avuto la generosità di donare, non solo al pubblico ma anche ai suoi attori. Ma il gioco, la malinconia, il ritmo, l’inquietudine trafelata, i lazzi e le liti sono quelli di sempre: una piccola “storia del teatro” vivente che passa attraverso il corpo degli attori.
Così, con tutta la sua vicenda umana e artistica di trionfi e di sudore, di strepitosa vitalità, Arlecchino sta ancora lì, concreto e poetico, fantastico e bizzarro, per continuare a vivere un’irripetibile avventura teatrale, allo stesso tempo lontana e vicina.
Maria Grazia Gregori, dal programma di sala di Arlecchino servitore di due padroni, stagione 2004/05