4 marzo 1975
Per due volte, a distanza di anni, Goldoni mette in scena uno degli altri a contatto con il popolo, direttamente. Qui il Cavaliere, nelle Baruffe il Cogitore, lui stesso vent’anni e più prima, quindi con un’intensità e densità biografica misteriosa che carica di infinite risonanze il personaggio. Quanto nelle Baruffe ci sia di “diario”, di essere umano e privato, di classe, pochi l’hanno sottolineato; e quanto struggente e originale sia tale idea, molti lo ignorano. Resta comunque questo straordinario “documento” per vagliare la posizione umana, sociale, artistica di Goldoni alla vigilia della sua partenza per Parigi. E, a mio avviso, non se ne può prescindere. È certo un fallimento, o più che un fallimento gridato, una tacita rinuncia in punta di piedi: «Sti siori dalla perucca co nualtri pescaori no i ghe sta ben…» e così via. Anche qui un tentativo d’inserimento, più attraverso il corteggiamento che attraverso “la carica”. Ma l’uno e l’altra visti come tentativo di “essere con”, anche qui l’impossibilità di accettarsi fino in fondo. Le classi restano divise, il gioco si chiude tra la gente della stessa “razza”. Nel Campiello lo stesso tema è sfiorato con chiarezza, anche se con minore o diversa profondità, dal Cavaliere napoletano. Che non è Goldoni giovane, che non porta memorie, che non ha alcuna carica per essere lì, bensì attitudine umanamente democratica, curiosa e amorosa verso la vita del campiello e dei suoi abitanti, per vivervi dichiarando: «Nol cambierei con un palazzo augusto: – ci ho con gente simil tutto il mio gusto». Il campiello è una specie di rifugio nel tempo del carnevale, per questo “nobile” fuggito dalla patria, che ha viaggiato per tre anni a occhi aperti, più che scialacquando non facendo conto del denaro. E vuole intorno allegria e visi sereni. Per lui: «Non parlatemi di malinconia, domani si vedrà, è carnevale». Vuole farli come può lui, questi visi sorridenti; con discrezione, ma entrarvi. Il mondo plebeo non lo assimila; e come potrebbe, se non in una commedia a tesi, finta, fuori della storia? Ma non lo scaccia nemmeno; lo accetta quasi; lo sta già accettando come presenza, e perde, a poco a poco, i toni di un rispetto ritualistico. Non è dei loro, alloggia in una locanda, ma può stare con loro: un poco burlato, un poco anche sfruttato (una cena finalmente vera e abbondante), e infine inserito come “compare”, con diritti e doveri, nel matrimonio che si celebrerà. Questa è stata la conquista umana del Cavaliere, a poco a poco, attraverso il suo muoversi nel campiello, il suo non capire, il suo sorridere, il suo corteggiare le ragazze perché è giusto che sia così, ma senza superbia, non al di sopra, ma alla pari. Diventa un personaggio a suo modo amato, anche se sempre tenuto a distanza e talvolta oggetto di scherzo. Scherzo che il Cavaliere accoglie sorridendo e talvolta sorridendo in rima: «Amico, di star con voi non me ne importa un fico». Questo Cavaliere senza parrucca, che tiene in tasca come un berretto, questo Cavaliere che va nel campiello, in terra straniera, e si diverte di coloro che intorno esistono in quanto “casi umani”, gente che parla, ride, ama, grida e canta perché vera, è una straordinaria figura irripetibile per Goldoni, e che non ha riscontro nel suo teatro. Ma ecco un altro tocco incredibile: questo strano Cavaliere democratico è anche lui di padre nobile e di madre plebea. «Anch’io» dice «sono così». E poi l’ultimo: è napoletano. Mi sembra che questo problema non sia stato assolutamente toccato, né dalla critica né dalle precedenti edizioni teatrali; o io almeno non ne sono a conoscenza. L’estraneità etnica e linguistica del Cavaliere è fondamentale per lo svolgimento del lavoro.
Il Cavaliere scopre Venezia per la prima volta: «Siete mai stato in Venezia prima?»; «No» risponde lui «è la prima volta». Però d’altra parte – ed ecco l’originalità personale – è anche straniero: non è un ragazzo estatico, e soprattutto non è costretto a essere lì perché coadiutore del cancelliere criminale, quindi con incarico ufficiale, ed egemone. È lì per libera scelta, perché gli piace quel paese, quel popolo, quella piazzetta, e perché in quell’ultimo carnevale preferisce far fuori gli ultimi soldini in quel luogo: «Oh, son pure obbligato – a chi un sì bell’alloggio m’ha trovato».
E s’inserisce nelle baruffe, negli amori; liti e gelosie degli abitanti del campiello, per “divertimento”, perché così gli piace, perché – dice – lì sta bene. E, si presuppone, lì più che altrove. Tutto questo non appartiene alle Baruffe; questo è autonomo. Cosicché i due personaggi, le due situazioni sono legate allo stesso tema fondamentale: “rapporti possibili-impossibili tra comunità popolare e gli altri”, ma con diverse sfumature, accenti, posizioni e caratteri. Il Cavaliere non ha in questo senso nulla a che fare con il Cogitore; non è una ripetizione, ma una autonoma invenzione su un unico tema di fondo. Non è difficile pensare che proprio questo tema appaia a Goldoni con questo accento nel 1756, e lo accompagni fino alla fine. Prima aveva suoni diversi, ma è riscontrabile, ad esempio, anche nella Putta onorata. Solo che lì non è un inserimento, ma la contrapposizione dura o il tentativo di “violenza” di un membro della classe egemone sulla “giovine” della classe egemonizzata.
8 marzo
Fabrizio, lo zio napoletano trasferitosi da poco a Venezia, appare come un intellettuale: studia sempre, legge sempre, e impazzisce per il rumore e le grida dei campiellanti. Il popolo del campiello lo disturba: probabilmente non li capisce bene, i loro suoni gli sono estranei. Sapremo poi, con un colpo di scena eccezionalmente ironico, che questo “intellettuale” ricco che rimprovera il cavaliere napoletano povero e nobile per aver buttato via il danaro dalla finestra, che anche lui era ricco una volta, e poi si è rovinato, e poi di colpo si è ricostruito la fortuna: con una vincita straordinaria al gioco del lotto. Talché l’intellettuale estraneo appare improvvisamente anche lui come un improvvido e forse inveterato giocatore del lotto; forse i suoi libri intellettuali sono libri che trattano questo argomento, ed egli studia (e non fa altro) una maniera per vincere ancora. Fabrizio non fa altro che leggere e arrabbiarsi, e il Cavaliere lo scopre nella sua realtà, che Fabrizio accetta naturalmente.
La ragazza, figlia a metà di nobili e plebei, è indubbiamente popolana e veneta, ma non del tutto: alla sua classe vuole sfuggire, e anche al suo linguaggio: denota curiosità vivace ma superficiale alle cose, all’arte, alla classe egemone; nel suo negativo ha alcuni accenti positivi. Direi che non è rassegnata: è inquieta, anche se per motivi sbagliati, vuole essere di più, vuole sapere di più. Il positivo-negativo di Gasparina è uno dei caratteri più complessi di Goldoni: il popolare rinnegato; e si apre in lei una problematica sui caratteri profondi, su padri e madri, sull’ambiente familiare, sulla condizione femminile. La superficiale Gasparina, semi-napoletana e semi-popolana che non vuole esserlo, è un carattere non solo “ridicolo”, ma in certi punti quasi straziante, certamente toccante, e il suo “vizio” è pieno di ombre, di ritrosie e di coraggi, di incertezze e stupidità, ma anche di slanci trattenuti, sogni legittimi, capacità di oltrepassarsi.
Il Cavaliere è di passaggio, come un turista curioso e innamorato. Sta lì negli ultimi giorni di un carnevale che non arriva mai al campiello, talché egli lo ricrea da sé con inviti a pranzo, orchestrina e vino, poiché il carnevale non oltrepasserebbe mai queste povere mura, dove c’è poco sole e tanta neve, e povertà estrema e tanta indigenza. Ma tutto ciò che vede e tocca, egli lo trova giusto, positivo, interessante e amorevole. Non è la curiosità del ricco per la povertà: è moto semplice dell’animo, un poco “labile” ma generoso, nel quale forse il “mezzo plebeo” della sua nascita gioca un ruolo quasi inconscio.
14 marzo
Nel Campiello non è mostrata la “permissività” della classe egemone, che sola potrebbe far riscontro alla severità della classe egemonizzata. Ma noi sentiamo che la regola del mondo dei poveri ha sì, da una parte, una certa misura e ristrettezza, ma anche una sua chiarezza, una serie di principi di comportamento che lo presentano come un mondo ancora compatto, non disgregato, solidale e regolato e autoregolato con antica saggezza.
Dagli appunti di regia; pubblicati nel programma di sala de Il campiello, stagione 1974-75