Al mio grande dolore si aggiunge anche questo: di non esservi vicino, come sempre, nel lavoro. Ma, per ora, il “Teatro” mi è impossibile. Mi fa troppo male. Dunque, sarete soli con Carlo [Battistoni, ndr] che guiderà questa impresa e ha tutte le ragioni per farlo. Lui sa tutto del Campiello e quello che non sa o non ricorda glielo dirà il suo cuore e la tenerezza della memoria. Abbiamo amato molto il primo Campiello. È nato come da sé, in attimi di creazione naturali. Sono sicuro che il secondo non sarà meno del primo. Vi ho scelti con amore e fiducia, i vecchi e i nuovi. I vecchi, si fa per dire, del Piccolo Teatro, che è stato una grande cosa nel deserto del teatro italiano, compagni di tante avventure, di tanta storia. I nuovi, che per la prima volta si muovono in questo spazio così misero, così piccolo e che pure ha visto una folla di creature umane inventare il modo di raccontare storie umane agli uomini. È questo – sapete? – il Teatro. Siete una “compagnia all’italiana”, come una volta, quando era un onore essere comici italiani riuniti e in viaggio per l’Italia e il Mondo. Oggi siete l’eccezione. Ma siete. Non dovete fare altro che essere voi stessi, con umiltà e orgoglio. Non dovete fare altro che darvi con abbandono e gioia. Gioia di essere attori: Jouvet diceva che è il più alto compito del mondo. Io non so. Mi pare troppo. Ma forse è così. Gioia di dare la vita a una “cosa” di teatro scritta da un genio che mai fece la parte del genio e che, in fondo, mai nessuno riconobbe come tale, sul serio. Il campiello è un capolavoro. Doveva essere di nuovo vivo proprio in occasione del Bicentenario della morte di Goldoni, a Parigi, in un gelido 6 febbraio del 1793.
Pensate qualche volta anche a questo: in quellasera di ricordo, in questa grigia città non più umana, si apriranno tre sipari in tre teatri, l’uno sull’Arlecchino servitore di due padroni, l’altro sulle Baruffe chiozzotte, l’altro sul vostro Campiello. Manca il quarto spettacolo, con una edizione della Trilogia della villeggiatura. In quella notte, avremmo messo così in scena una “storia” riassunta di G.. Una delle cose somme del teatro in lingua, l’avventura della società borghese che partiva, ritornava o non ritornava. Una grande epopea in minore (apparentemente) del popolo che lavora e poco o niente ha se non la difficile solidarietà e l’amore e, in mezzo, un G. quasi infantile che vuole esserci ma non può. Un perfetto poema dello stesso popolo che senza il grande mare e senza il vento e le stagioni, in un cerchio di case che anch’esso poco o niente ha, nella eco di un carnevale che non gli appartiene, vive anch’esso le sue storie di difficile solidarietà e amore. E anche qui un altro G. che non è G. ma è di un altro mondo, “di un altro paese” persino e che sta lì, perché gli piace, perché preferisce quell’angolo di vita a ogni palazzo, fuori. Anche qui il G. – Conte – Cavaliere napoletano, è respinto, ma almeno ritorna “laggiù” con una creatura che ama e lo ama. Lei pure un po’ “foresta” sempre. «Addio Venezia cara», con quello che segue.
Guardate dal di dentro di voi a queste storie così diverse e così uguali e amate la grandezza di G.. Recitarlo è per ognuno di voi e per gli altri il miglior modo per celebrarlo: col rito del teatro. Laggiù, al Teatro Studio, il carnevale c’è, non come una eco.
Cercate, se potete, di riunirvi la sera del 6 febbraio, voi comici italiani che avete il diritto di chiamarvi tali e di restare insieme, parlandovi e volendovi bene.
Per il resto: so di lasciarvi in mani oneste e capaci. Soprattutto buone. So che voi siete buoni, che avete il cuore limpido. Il talento comincia da qui.
Dunque, il Campiello secondo sarà nella neve e nella dolcezza.
Vedrete che, in fondo, la mia presenza non sarà stata, alla fine, così determinante. Forse mancherà qualcosa qui o là. Forse avrei potuto andare avanti (ecco il punto: andare avanti, da allora!). Certo vi avrei dato bene e calore. Ma, ripeto, alla fine il Campiello sarà, perché un poeta del teatro l’ha voluto così e così l’ha scritto.
La neve: è stato il dramma dei russi, a Mosca. Non sono mai riusciti ad accettare fino in fondo questa Venezia nella neve e con la neve. Hanno amato il Campiello, tanto, ma… E lo sapete che, allora, ho scoperto un fatto incredibile: laggiù non “giocano” mai con la neve. “Le palle di neve” sono una festa per noi mediterranei. Là non è festa. Pure qualcosa ho imparato. Certo Venezia ha conosciuto inverni straordinari, la laguna si è gelata più volte, la neve, nel tempo, c’era. Ho sempre pensato che questa “atemporalità” che viene adoperata per le opere di G. è giusta, da un certo punto di vista (è astratta), ma non giusta dall’altro (toglie vita). Ecco perché ho pensato che a febbraio di quell’anno, di quel giorno, “poteva” essere caduta neve e che tutto si svolgeva d’inverno. Come le Baruffe si svolgevano ai primi d’autunno, tra uno scirocco e l’altro. Ma forse, ecco, occorre “risparmiarsi” sulla neve. Forse, ricordo, ce n’era troppa anche perché l’avevamo scoperta allora come strumento nuovo di teatro e ci piaceva. Forse sul palco ce ne deve essere meno. O già era così? Infatti, la pozza d’acqua non è gelata, proprio no. Forse ci sedevamo troppo per terra, sulla neve? Forse faceva troppo poco freddo per i personaggi? Forse mancava – che so? – qualche scaldino per “le vecchie” che, badate, tanto vecchie non sono. Qui nasce una grande difficoltà, direi la principale per le attrici. In fondo sono povere donne sfiorite, con pochi denti, sorde e altro. Ma… Ma… Devono, ciononostante, essere ancora “vive”. I fidanzati di una non sono forse così inventati quanto si può credere.
Qualcosa sul freddo, sulla neve, più o meno, sulle posizioni a terra dovrebbe essere rivisto. Poca roba: uno scialletto in più, uno scaldino in più, un naso gelato in più… Una nuvola di fiato che esce da una bocca (l’eterna illusione del teatro, che non può farlo, per noi figli del cinema, ma si può fare “finta” – sapete – anche per quello!).
Il Cavaliere: Giancarlo [Dettori, ndr] certo ha la tendenza all’estroso (è intelligente, lui, pieno di fantasia drammaturgica), allo scattante, ma il cavaliere è morbido, infantile, mediterraneo nella dolcezza del lasciarsi andare all’oggi: e poi chissà? Non è in miseria per vizio o per deboscia. Ha giocato, ha perso tutto, ma così… Come De Sica, ecco!… Il nostro caro, vecchio, gran giocatore scomparso… E si incanta a tutto. Si diverte dolcemente, corteggia dolcemente perché si lascia derubare dal popolo che lo guarda come “il rinoceronte” del Longhi, un animale “strano” che parla “strano” e che può servire per una mangiata (la sola dell’anno!). Crudele, un poco, il popolo con lui. Ma giustamente crudele e innocente nella sua crudeltà. Il Cavaliere sembra che lo capisca. È intelligente. Gasparina: Giulia [Lazzarini, ndr] ha tutto, ma proprio tutto per fare una Gasparina stupenda. Una sola cosa non ha: l’età. Ma questo vale altrove. A teatro, sapete cosa ho sentito dire un giorno da Jouvet a un attore che usciva di scena alla prova e, un po’ anziano, recitava la parte di un attor giovane? L’attore: «Com’è andata, Patron?»; Jouvet: «Bene… Bene… Mancava un po’ di giovinezza. Ma anche questa la si impara».
Non avere alcun complesso cinematografico, Giulia! Tu sei più giovane, quando vuoi essere giovane e devi, di noi tutti e di tutte le giovani vere. Con in più la sapienza. Attenta solo al sottotono. La tua finezza è il tuo agguato. Gasparina è viva, delicata sì, ma energica, piena di voglia, piena di curiosità. Non è Čechov, mai.
E potrei andare avanti così. Ma allora? E Luigi [Diberti, ndr]? Il vecchiardo malefico della Piovra uno, due e tre? Quel maledetto trapassa il tempo indenne.
Ah! Dimenticavo: il napoletano. Ci sono due stranieri qui: Gianni [Mantesi, ndr] e Giancarlo [Dettori, ndr]. Sono proprio stranieri per cadenza e modo. Il vecchio napoletano tutto fuoco ed esuberanza. L’altro tutto contemplazione e placido senso che la vita tanto passa e tanto niente conta. Il vecchio è uno studioso con tanti libri. Non lo lasciano studiare. Poi si scopre che è uno che ha vinto una grossa somma al lotto e ha lasciato Napoli per Venezia. Certo per andare lontano in un altro posto e sperare nel secondo colpaccio. Per aumentare le probabilità. Studia, ma studia la Smorfia, la Cabala, il libro dei sogni, il sistema!
Quale genialità di G.! Lo si scopre solo alla fine. Ma l’attore lo sa dal principio. Forse io non sono riuscito a mettere in luce proprio questo.
Il giovane, ma non tanto, parla un napoletano morbido, cadenzato, lento, ma non fiacco. Gli altri non lo capiscono bene. Lui non capisce bene gli altri! Ma vuole imparare. Altro colpo di genio di G.: l’Italia, quella vera.
Che tutto sia vivo, dolce, aspro, lieto e triste. E che ci sia gioia di vivere, contro tutto e tutti. La lezione di questi tre spettacoli è che la vita è una cosa unica, sorprendente e magnifica.
Viviamo tempi molto oscuri in cui, come diceva B.B. [Bertolt Brecht, ndr], cantare gli alberi pare un delitto. Tempi in cui soltanto vivere, essere, amare è un delitto.
Nel magico cerchio del Teatro, inventiamoci una vita che intorno non c’è. Come una parabola. Come un simbolo di un mondo migliore. Io non sarò con voi. Ma ugualmente ci sono. Qualcosa del meglio di me è alle vostre spalle, forse nei vostri cuori, certo nella memoria. E da lontano – vicino – vi guardo con tutto il mio bene e la mia fiducia. Non sentitevi in colpa “facendo Il campiello” senza di me. Voi non fate G., non fate me, non fate nemmeno Il campiello. Fate il TEATRO che è più grande di tutti noi e persino di quelli che l’hanno scritto.
Vi abbraccio tutti con il mio vecchio affetto lacerato.
Giorgio
Lettera agli attori del Campiello, dicembre 1992 – Archivio Piccolo Teatro di Milano