Quell’attore fu anche un maestro. Maestro in senso artigianale, antico e quasi dimenticato. Jouvet, maestro dell’arte del Teatro Classico, là dove è il testo la legge fondamentale.
Al fianco di Stanislavskij, Copeau e Brecht, Giorgio Strehler indica come proprio maestro anche Louis Jouvet. Nato in Bretagna, nel 1913, dopo gli studi in farmacia, entra nella compagnia del parigino Théâtre du Vieux-Colombier di Jacques Copeau, dove lavora come scenografo, assistente, regista e attore. Nel 1934 assume la direzione – che manterrà fino alla morte, avvenuta nel 1951 – del Théâtre de l’Athénée; qui mette in scena alcune delle sue produzioni più celebri, contribuendo tanto alla riscoperta dei classici, come Molière e Corneille, quanto alla diffusione della drammaturgia contemporanea, firmando i debutti assoluti di lavori di autori quali Jean Giraudoux (La guerra di Troia non si farà e La pazza di Chaillot, tra i tanti) e Jean Genet (Le serve). Oltre alla carriera teatrale e cinematografica – recita in oltre trenta film – si dedica con passione all’insegnamento, tenendo corsi al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi. È a partire dalla trascrizione di alcune sue lezioni che Brigitte Jaques ha creato Elvira Jouvet 40, il testo scelto da Strehler per inaugurare il Teatro Studio nel 1986.
Ci sono persone, e nomi, che porto sempre con me, anche silenziosamente, senza parlarne troppo spesso, o a sproposito. Chiamarli grandi, i miei maestri, è riduttivo, pur se il termine, grande, si allarga a infinite accezioni, compresa quell’amicizia densa d’amore che lega chi insegna davvero a chi davvero vuole imparare. Sono quattro, i miei maestri. Grandi, senz’altro, in molti e differenti sensi. Ma soprattutto capaci di una naturalezza sorprendente nel trasmettere, nel passare ad altri le loro elaborazioni d’arte e di vita. E questo è il significato più profondo dell’insegnare.
Due francesi, un russo e un tedesco. Due sconosciuti, ossia mai incontrati, mai avuti davanti in carne e ossa; gli altri due, al contrario, frequentati a lungo, ascoltati, osservati, seguiti, “bevuti”, imparati a memoria. Stanislavskij, Copeau, Jouvet, Brecht. Mi guidano ancora. Benché non sia sempre cosciente di averli accanto. Come tutti, qualche volta mi rifiuto alle voci e ai consigli. Ma loro sono lì, stelle polari che rimangono a dar luce.
[…] Jouvet. L’allievo prediletto di Copeau. Jouvet, il diretto testimone della fuga da Babilonia [nel 1924 Jacques Copeau lasciò Parigi per trasferirsi, con la famiglia e alcuni allievi, in Borgogna, ndr], colui che visse col vecchio pazzo ritirato in campagna per non sottostare alle catene della comunità industrializzata. Jouvet, ossia un maestro, estremamente importante, di interpretazione e di spettacolo. Io ero un giovane, amante e amato. Lui mi parlava a lungo, la notte, già stanco e deluso, già ampiamente amareggiato, nella senilità, dalle ottuse reazioni della critica al suo teatro spoglio, essenziale, profondo. Un giorno, attorno a un tavolo, gli chiesero come fosse andato il Tartufo di cui era regista e interprete. Si limitò a mostrare, sconsolato, i giornali che parlavano del suo “tradimento”, di come Molière richiedesse rappresentazioni “divertenti”, non versioni interiorizzate, riflessive, “nere”. Conosceva a menadito il Sabbatini, e tutta la nostra tradizione della Commedia dell’Arte. Fece stupende trasmissioni radiofoniche sull’argomento, insieme con Marcello Moretti e con me. Era un erudito attentissimo.
Jouvet s’è dedicato soprattutto allo studio di un mistero: il rapporto fra attore e personaggio. Un mistero che comprende il gioco diabolico delle mille anime, il mascheramento, la voglia e l’attitudine ad assumere vesti e verità altrui, a volte immense e a volte infime, a volte larghe e a volte piccole. Ma pur sempre diverse dalla propria. Chi è l’attore? – Si è chiesto Jouvet per tutta la vita. Un mentitore, un pagliaccio, un martire? Quando il pubblico lo osserva, lo ascolta, nei panni di uno dei mille personaggi possibili, come può distinguere fra la parte di sé che egli mette in gioco e la menzogna del ruolo? Fu, quella di Jouvet, una ricerca inesausta. Severa. Era severo con gli allievi e con se stesso, indifferentemente, dedito alla religione dell’Attore come – forse – nessuno altro mai. L’insegnamento che ci ha lasciato, grande insegnamento per la vita della scena, è che l’attore non può agguantare completamente l’eroe o l’eroina al quale si dedica. Può tentare di avvicinarsi, ma senza l’illusione di diventare il personaggio. I personaggi sono. Gli attori ne forniscono l’ombra, una parte, uno degli aspetti possibili. Amleto come tale non apparterrà mai a nessun interprete in particolare, bensì a ventimila, trentamila, centomila interpreti chiamati a rappresentarlo, interpreti di talento, naturalmente. Questo fu Jouvet: fai non Amleto, o Don Giovanni, ma qualcosa di loro. Basterà. Il personaggio è più grande di te. Non credere di raggiungerlo. Morì in palcoscenico, su un divano. L’unica morte possibile per lui.
Giorgio Strehler, I grandi della scena, “Ulisse 2000”, marzo 1990
Questa è una lezione che mi ha dato Jouvet. Una lezione di umiltà. Nel senso del limite del mestiere, di attore e di interprete, come uomo di teatro. Il regista è un interprete, anche lui come l’attore. Non è altro. E in effetti lui ci ha insegnato una verità profonda: che i poeti, quando sono veramente tali, hanno scritto pensieri che oltrepassano il tempo, che lo anticipano, che parlano sempre delle stesse cose ma in modo diverso alle generazioni successive. Mentre gli attori sono persone che traducono. Sono effimeri, come noi esseri umani. La poesia ha qualcosa che va al di là dell’umano, al di là della vita di colui che l’ha scritta; lo stesso vale per la musica o per il teatro. Gli attori devono sapere che essi scompariranno mentre invece Amleto, lui, rimarrà in eterno. Questo grande personaggio inventato da un grande poeta del teatro sopravviverà. E i duemila, tremila Amleti attori, che bene o male hanno interpretato quel ruolo, sono scomparsi col tempo. Molto probabilmente non ci si ricorda nemmeno più di loro. Quindi l’interprete deve capire che, sì, è importante ma che è solo un mezzo per comunicare determinati fatti, scritti dagli autori. Ma non deve avere l’illusione di prendere il posto del poeta, come non deve farsi alcuna illusione sulla sua immortalità, come è invece il caso di Amleto.
L’attore è in transizione. I grandi personaggi da Antigone ad Amleto, da Giulietta a Romeo, sono là e restano per quelli che verranno dopo di lui. È questa l’eternità dell’opera d’arte, la differenza tra l’interprete e il creatore. Mozart ha scritto il Don Giovanni per l’eternità, mentre i cantanti lo hanno solo interpretato.
[…] I personaggi restano, siamo noi che cambiamo. E tu capisci bene quanto dobbiamo essere umili e piccoli, affinché i grandi e piccoli personaggi del teatro possano rimanere. Noi uomini invecchiamo, moriamo, ci ammaliamo, loro sono immortali. E questa è l’eternità del teatro. Non siamo certo noi a rendere immortale il teatro. Ma sono i personaggi. E il pubblico si emoziona sempre e questa è una grande lezione, molto importante, ed è quella di far comprendere che gli attori sono solo dei “medium” che si fanno carico della parola e delle azioni dei personaggi, mentre i personaggi hanno una eternità certa.
Riportato da Francesca Pini, Il tempo di una vita. Conversazione con Giorgio Strehler, Genova, De Ferrari, 2005