Elvira, o la passione teatrale

1986

Dopo anni di trattative per ottenere una seconda sede, finalmente, a metà degli anni Ottanta, il Comune di Milano consegna al Piccolo l’antico Teatro Fossati, da tempo dismesso. A opera dell’architetto Marco Zanuso, lo spazio è stato trasformato in una nuova sala – a pianta centrale, con platea e quattro ordini di balconate – alla quale Strehler dà il nome di Teatro Studio, in quanto destinata a essere strettamente connessa all’attività della futura Scuola del Piccolo che, nel 1987, prenderà avvio nel medesimo edificio.
Per inaugurare questo nuovo ambiente, sottolineandone al contempo la vocazione pedagogica, il regista sceglie di mettere in scena le sette lezioni – dedicate al ruolo di Elvira nel Don Giovanni di Molière – tenute da Louis Jouvet nel 1940 e adattate per il teatro da Brigitte Jaques. In una Parigi minacciata dall’occupazione tedesca, un piccolo gruppo di aspiranti attori continua il proprio lavoro all’interno del Conservatoire. Alle immagini di violenza, alle urla di Hitler, alla distruzione si contrappone una voce di donna (Giulia Lazzarini nel ruolo di Claudia, allieva prediletta di Jouvet) che parla d’amore. Al fianco dell’attrice, è lo stesso Strehler, dopo molte stagioni di assenza dal palcoscenico, a interpretare l’amato regista francese. «Per noi rappresenta ogni sera quasi un atto sacrale. Un fatto che ci riporta alla nostra concezione più profonda del teatro e del mestiere dell’attore».

Personaggi e interpreti

Louis Jouvet Giorgio Strehler
Claudia Giulia Lazzarini
Octave Luigi Di Fiore
Léon Mario Ficarazzo
Jacky Claudio Carioti
Irene Giusi Cataldo
Brigitte Annalisa Costantino
Christine Cristina Nutrizio
Jean Luc Tito Manganelli

Sette lezioni di Louis Jouvet
Rappresentazione di Giorgio Strehler
Da Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jaques tratto da Molière et la Comédie classique di Louis Jouvet, copyright Éditions Gallimard

Elementi scenici a cura di Ezio Frigerio
Elementi di costumi a cura di Luisa Spinatelli
Registi assistenti Carlo Battistoni, Enrico D’Amato
Assistente alla regia Fabio Sparvoli
Aiuto alla regia Cristina Nutrizio

Milano, Teatro Studio, 30 giugno 1986

Riprese

1987, 1997

Lo spettacolo è ripreso nel 1987: in maggio – in occasione dei festeggiamenti per il 40° anniversario della fondazione del Piccolo Teatro – e in settembre. In alcune recite il ruolo di Octave è interpretato da Federico Grassi; quello di Jacky da Felice Invernici; quello di Irene da Franca Marchesi; quello di Brigitte da Manuela Massarenti; quello di Jean Luc da Marco Carniti.

Dieci anni più tardi, per celebrare il mezzo secolo di vita del Piccolo, Elvira, o la passione teatrale è nuovamente in scena, con la seguente distribuzione:

Louis Jouvet Giorgio Strehler
Claudia Giulia Lazzarini
Octave Lorenzo Volpi
Léon Tommaso Minniti
Jacky Luigi Distinto
Irene Barbara Esposito
Brigitte Elena Ferrari
Christine Greta Zamparini
Jean Luc Francesco Guidi

Sette lezioni di Louis Jouvet
Rappresentazione di Giorgio Strehler
Da Elvire Jouvet 40 di Brigitte Jaques tratto da Molière et la Comédie classique di Louis Jouvet, copyright Éditions Gallimard

Elementi scenici a cura di Ezio Frigerio
Elementi di costumi a cura di Luisa Spinatelli
Regista assistente Carlo Battistoni
Assistente alla regia Giuseppina Carutti

Milano, Teatro Studio, 16 giugno 1997

Strehler ne parla

Una testimonianza d’amore e di gratitudine

Ecco cosa scriveva un giorno, un attore, Louis Jouvet, sul teatro, sull’attore e sulla vita. «Il teatro: creazione degli uomini per arrivare più in là, più in su? Esorcismo per combattere, ognuno di noi, i fantasmi che ci abitano? Gioco puerile che non va né più in là, né più in su di un gioco di bambini? Nessuno è riuscito ancora a trovare delle spiegazioni vere che riempiano il vuoto immenso di queste domande: cos’è il teatro? E perché si va a teatro? Perché si fa il teatro?
È un mestiere quello del teatro in cui si rischia continuamente il disprezzo e la perdita di se stessi.
E io? Per quale anomalia, per quale sregolatezza dei miei sentimenti, proprio come dicono i Padri della Chiesa, mi sono ridotto a questa condizione di voler “far finta” per tutta una vita, di imitare, di…
Ma perché “quelli” mi guardano attoniti e commossi, in silenzio? Forse perché il teatro è fatto per insegnare agli altri altre cose che avvengono intorno a noi, perché essi credono o capiscono che coloro che recitano sono là per “rivelarli” a loro stessi. Forse il teatro serve per far sentire loro che hanno un’anima e un’anima immortale.
Se è così, allora io sono l’intermediario di un’operazione altissima!
Comunque sia, il mio mestiere è l’arte di far credere qualcosa che non è, l’arte dell’apparenza. Far questo come una “maniera d’essere” e, in questo esercizio, trovare un equilibrio interiore per poter vivere.
Trovare un equilibrio nel suo disequilibrio. Vivere nello sdoppiarsi. Perdersi nel teatro per ritrovarsi. Il segreto dell’attore, forse il segreto di tutto il teatro, è qui… e i miei sono propositi inutili. Ma possono fissare per l’anno 2000 (soltanto qualche decennio da oggi) lo stato d’animo d’un attore qualsiasi, in un anno dell’epoca travagliata che stiamo vivendo. Un attore che reinventa, ogni sera, resuscita ogni sera il teatro con tutta la tenerezza che ha per amarlo meglio».
Quell’attore fu anche un maestro. Maestro in senso artigianale, antico e quasi dimenticato. Jouvet, maestro dell’arte del Teatro Classico, là dove è il testo la legge fondamentale, e che continuò, con libera ma profonda fedeltà interiore, la lezione di un altro maestro, quello che fu il suo: Jacques Copeau, al quale la nostra Scuola oggi si ispira.
Mi è sembrato dunque giusto inaugurare questo nuovo spazio teatrale che abbiamo chiamato Teatro Studio, per indicare il suo carattere diverso da quello di teatro normale quale è il nostro Piccolo Teatro e quale sarà la Sala Grande che sta crescendo qui davanti a noi, con una rappresentazione di sette lezioni che Jouvet tenne, insieme ad altre, tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940 al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi. Esse riguardano il personaggio di Elvira nel Don Giovanni di Molière, atto IV, scena VI.
La nostra non è una ricostruzione (del resto impossibile) di alcuni avvenimenti del passato. È una testimonianza d’amore e di gratitudine. È qualcosa che ha a che fare con il cuore, con l’emozione che proviamo rileggendo o ripetendo le parole di Louis Jouvet e sentendole così presenti continuamente nel nostro lavoro quotidiano di teatro, quasi che fossero nostre. E infatti in parte lo sono, appartengono al nostro modo di vivere la teatralità dal primo giorno.
Questa testimonianza, vogliamo portarla a voi, Giulia Lazzarini, io stesso e un piccolo gruppo di giovani, a somiglianza di quelli che domani nasceranno al teatro tra queste mura. Giulia non “farà la parte” della giovane Claudia nel 1940, allieva protagonista del Don Giovanni di Molière, io non “farò la parte” di Louis Jouvet di allora, maestro di teatro. Noi “diremo” le parole che ci sono restate in stenografia, di quelle lezioni, per il pubblico di oggi, perché sappia e ricordi. Perché, forse, dalla nostra rappresentazione il pubblico riceva un messaggio – a me non fanno paura i messaggi quando sono buoni, quando dicono cose giuste –, messaggio di fiducia nei valori dell’uomo, nella sua possibilità di comunicare e insegnare, di dare e di ricevere e portare avanti, anche con fatica, un poco di storia e di arte dell’umanità.
Ripensando a quei tempi, che io ho vissuto, e resistendo quanto più possibile alla demenza e alla atrocità che diventavano sempre più universali, ciò che avvenne in quelle lezioni di Jouvet a Claudia e ai suoi giovani compagni mi sembra qualcosa di più di un ammaestramento teatrale, che pure esiste e brilla di una sua luce folgorante: è il simbolo di una lotta inconciliabile per la difesa di alcuni valori dello spirito e della poesia e del lavoro buono, della ragione dell’uomo contro la barbarie, la follia, la crudeltà che stavano invadendo con i loro mostri l’Europa e il mondo. Quei mostri che sono sempre pronti a essere partoriti a ogni momento, a ogni svolta della storia, oggi e domani come ieri, dal ventre fecondo di ogni intolleranza, di ogni tirannia, ogni ingiustizia e ogni mancanza d’amore.

Giorgio Strehler, Con Jouvet nel mistero della scena, “Corriere della Sera”, 18 giugno 1986

Come un violino mai suonato

Sto vivendo un momento estremamente particolare. Sto cominciando a suonare uno strumento mai suonato, come un violino: ma non so dove mettere le dita. È una sorpresa continua. Il fatto più interessante e angoscioso è che, avendo scelto, per inaugurare questo luogo, le sette lezioni di Jouvet, le sento giuste e storicamente attuali, per tutti i valori che esprimono e per tutte le sovrapposizioni di pensiero, alle quali guardo con un senso di smarrimento continuo.
[…] Anche se con parole diverse, la Lazzarini e io viviamo sul palcoscenico le stesse realtà, gli stessi rapporti che, nel testo, intercorrono tra Jouvet e la sua allieva, Claudia. Non è straordinaria anche la somiglianza Giulia/Claudia? Sono venticinque anni della nostra vita che ci diciamo le stesse cose. Da qui nasce il mio smarrimento. Sono io o è Jouvet che parla? È questa la meravigliosa continuità, che noi chiamiamo teatro. Il mistero in cui non sappiamo più che cosa appartiene a noi e che cosa invece è patrimonio comune. La riflessione, nella quale mi smarrisco, è allora: chi siamo noi? Qual è il valore delle nostre interpretazioni? Lo stesso Jouvet meditò molto sul mistero del teatro, su come lo si fa, perché si fa, sul significato di questo lucido delirio.
[…] Sono domande senza risposte. Forse si fa teatro per indicare agli uomini quelle cose che avvengono intorno a loro, per rivelarle, per insegnarle agli altri e a se stessi, come intermediari d’una operazione altissima, ch’è, sì, arte dell’apparenza, ma anche atto d’amore. Che è l’unico valore ancora capace di costruire qualcosa.

È in scena Strehler, intervista di Paolo A. Paganini, “La Notte”, 27 giugno 1986

Lettera a Jouvet

Caro Patron,
Vi scrivo una lettera dopo una prova in cui ho detto delle vostre parole. Le ho dette a me stesso, le ho dette a Giulia che era Claudia, le ho dette ai ragazzi, le ho dette a un pubblico ancora immaginario.
Domani non lo sarà più. Sarà il “pubblico”, vero, l’unico, eterno, uguale pubblico di sempre. Il vostro, il mio e quello che di coloro che verranno dopo di me, come è stato quello di coloro che sono venuti prima di noi.
Ci siamo nutriti con grande commozione, con una enorme gratitudine dei vostri pensieri, e io, questa notte, non so dirvi molto.
Come sempre i pensieri e le parole sono confusi, ma le sensazioni nette e chiare. Mi avete insegnato voi a non cercare di capire “troppo” nel teatro. Mi avete detto voi: l’intelligenza per un attore è sentire molto alto. E mi avete detto voi: l’albero che cresce non pensa di crescere. Cresce e basta.
Pure anche in me, come in voi, c’è questo bisogno di capire, di pensare al teatro, al nostro mestiere.
«Come si può fare il teatro senza pensare al teatro» dicevate. A me viene da scrivere: come si fa a resistere tanti anni, dentro questo mestiere che ha sempre in sé qualcosa di infame e d’indegno, di vano e d’inutile?
Avete resistito, voi, fino all’ultimo. Sto resistendo anch’io.
E forse solo oggi sono riuscito a capire finalmente quello che volevate, dicendomi una sera, dopo una recita proprio del Don Giovanni, a un tavolo anonimo e per me indimenticabile: «Gli attori non hanno vocazione. Se viene, per gli attori, viene dopo. Arriva alla fine». Furono queste, esattamente, le vostre parole.
Nella mia giovinezza entusiasta, vi ascoltavo, qualcosa capivo. Ma questo non lo potevo capire. Mi sentivo “assolutamente votato”, in quel momento, al teatro. Ero follemente pieno di “vocazione teatrale”, di stupore, di amore teatrale, di passione teatrale. Perché, perché avrei dovuto aspettare “alla fine”?
Sono passati anni e anni di pratica e di mestiere. Lunghissimi e rapidissimi, uno spettacolo dopo l’altro, un testo dopo l’altro, un viso dopo l’altro, una voce, un suono, una luce dopo l’altra e sono arrivato qui, a questo desolato “dopoprova”, solo, nella penombra della stanza, alla mia vecchia macchina da scrivere che perde i colpi e si mangia le parole troppo consunte. A parlare con me stesso e al mondo, che assolutamente non sente, ancora del “teatro”. A essere ancora nel teatro, direi senza pietà, senza riserve, disperatamente “toccato” dal Teatro come, per chi crede, dalla Grazia.
E vi scrivo per farvi sapere, in qualche modo, che adesso, solo adesso, ho capito. Che solo adesso, nell’angoscia estrema, nella stanchezza estrema, nel rifiuto estremo del teatro, non potendolo rifiutare perché più forte di me, più forte di tutto, adesso so cos’è non la “passione teatrale” (quella era così facile, così calda, così immemore e felice!) ma la “vocazione teatrale”. Che è pietra e sangue.
Proprio adesso che è tanto tardi, so che questa vocazione mi possiede tutto e che prima mi ha messo solo alla prova. Forse anche quella di oggi è ancora una prova. Ma se prova è, essa è estrema. È l’ultima.
Patron, sì io sto vivendo, accanto a voi, l’ultima prova d’amore che il teatro mi chiede. Ora non posso proprio dargli di più. Non è rimasto niente.
Sono finalmente e totalmente spossessato di me. Resta solo Lui, fuoco che brucia con un fulgore insostenibile, senza fiamma. E senza cenere. Come un astro che sparge i suoi atomi nell’Universo.
Amen.
Anche per me sono le tre del mattino. Un giorno di giugno del 1986.
Giorgio Strehler

Lettera di Giorgio Strehler indirizzata a Louis Jouvet, pubblicata all’interno del programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1985/86

Due ore di totale impegno teatrale

Elvira, o la passione teatrale è, per noi, uno spettacolo emblematico, un’indagine sulla moralità del gesto teatrale, un atto d’amore per uno dei nostri maestri, ma nello stesso tempo anche la testimonianza di un legame profondo con il lavoro che stiamo svolgendo per la nostra Scuola: del tutto coerente, del tutto inserito, quindi, nel discorso sul teatro e sull’uomo che andiamo facendo dal 1947 a oggi. Due ore di totale impegno teatrale, in cui due attori – in queste sere Giulia Lazzarini e io – davanti agli allievi di scena, simbolo degli allievi di ieri e di domani, di fronte al pubblico, col solo sostegno del loro corpo, della loro voce e della loro presenza, svelano le alte parole, le sofferte meditazioni e il severo rigore di un maestro del teatro. Non un “recital” dunque – parola che rifiutiamo –, ma una specie di suicidio teatrale, perché la gente sappia un poco di verità, sulla fatica, sul dolore, sulla tensione nostra di interpreti, di servitori del teatro, sulla nostra segreta realtà di sempre imperfetti messaggeri della poesia e della verità.
Una così alta, così impegnativa prova merita ben altre denominazioni che non quella di spettacolo, termine insufficiente a definire quel qualcosa di straordinario che è stato Elvira: un avvenimento sconvolgente, colto nel profondo dal pubblico ogni sera, lasciandoci sempre meravigliati e commossi. L’adesione totale del pubblico – nella nostra cosiddetta società dello spettacolo – a questo atto di verità è una delle poche cose che confortano la mia ultima maturità di uomo di teatro. E fanno giustizia di molte amarezze, di molte viltà, di molto disordine che circonda il nostro lavoro.
Ed è certo superfluo sottolineare quanto questa messa in opera di un discorso sul teatro, in un nuovo spazio che abbiamo fatto nascere l’anno scorso, sia legata all’idea e alla struttura stessa del Teatro Studio e voglia indicarne una possibilità di uso, una delle tante possibilità stilistiche.
Consegniamo dunque al pubblico questa nostra fatica, con la promessa di ripeterla oggi il più possibile, per riprenderla domani e poi dopodomani, perché Elvira, o la passione teatrale deve essere per il Teatro Studio il filo rosso che ricordi sempre nel tempo la sua genesi e le sue finalità. In questo senso abbiamo presentato Elvira, o la passione teatrale troppe poche volte; e invece vogliamo che il nostro pubblico e il pubblico europeo dentro e fuori le nostre mura ascolti il più possibile il nostro sommesso ma perentorio messaggio. La vita di questo spettacolo sarà dunque lunga ed Elvira costituirà una irrinunciabile permanenza nel nostro teatro, un richiamo per tutti a un concetto più nobile, più alto di teatralità.
E domani, quegli allievi oggi “finti” della rappresentazione saranno veri e rinnoveranno l’evento di oggi, perché Giulia Lazzarini e io diremo loro le stesse cose che diciamo queste sere: lassù, nella nostra scuola, noi lavoreremo infatti sempre su questo filo d’amore e di saggezza e su quel lampo di intuizione di Louis Jouvet, che si è fatto, in queste circostanze, spettacolo per il pubblico.

Dal programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1986/87

Costa caro fare teatro

Il Teatro Studio è nato con uno spettacolo-simbolo, uno dei più cari, costruito sulle parole di un nostro Maestro: Louis Jouvet.
Doveva essere un esempio di come fare teatro in un modo diverso, in un luogo diverso.
Non lo è stato del tutto, anche con tutta la nostra fedeltà a un’idea iniziale: ma il Grande Teatro che doveva vivere lì accanto ancora oggi non è finito.
Era il 1986. Abbiamo dovuto adoperare il Teatro Studio, molto spesso, come se fosse un “teatro normale”. Non lo era, non lo è e non lo sarà mai. Quel luogo era fatto per fare teatro, ma più che altro per ricercare, per discutere, per scambiarsi idee e gesti.
Elvira, o la passione teatrale era un modo per indicarne il destino. Per questo, nel poco o tanto che facciamo per il nostro anniversario, c’è Elvira, ci siamo Giulia e io e gli allievi della nostra Scuola, che proprio quest’anno vive il corso per attori nel nome di Jouvet. I conti tornano.
Su quello che facciamo non c’è molto da dire. Queste lezioni di Louis Jouvet, su una scena del Don Giovanni di Molière, dicono tutto: teatro, vita, metodo, modo di credere nell’arte teatrale. Non è un testo straordinario, ma un insieme straordinario di riflessioni sul teatro, che vengono consegnate – si può dire recitate? – al pubblico. Per noi rappresenta ogni sera quasi un atto sacrale. Un fatto che ci riporta alla nostra concezione più profonda del teatro e del mestiere dell’attore.
Noi crediamo nel teatro come in una missione e a quest’idea ne accostiamo un’altra: quella del teatro come momento dialettico, come rifugio della storia. La dialettica e la storia sono le nostre direttrici di sempre, che ritroviamo in ogni nostro lavoro, più o meno riuscito.
Costa caro fare il teatro. Costa quasi l’anima e, di questo, Copeau, il Maestro dei Maestri, aveva paura. Eppure è proprio […] nel cammino in mezzo alle orme dei personaggi, nella lotta per conquistare un poco di autenticità […] che noi troviamo il senso del nostro lavoro di teatro. Uno come tanti e nello stesso tempo straordinario, diverso da tutti. E non è una contraddizione. Forse è il mistero della teatralità. Noi dedichiamo, in questo Cinquantesimo, alcune serate a dire, a noi stessi e agli altri, alti pensieri e a svelare il cammino faticoso del teatro e degli attori.
Parliamo di voi e di noi, della verità dei poeti che per il teatro hanno scritto e scrivono. E ricordiamo uno dei più grandi autori teatrali, grande e infelice: Molière, che visse per la scena e sulla scena morì, una serata fra tante.
Possa il pubblico trovare l’alto rispetto e il profondo amore che noi portiamo alla fedeltà teatrale. Più ancora che alla sua passione.

Dal programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1996/97

Documenti

Maria Grazia Gregori. Strehler in prova: passione, sudore e fatica per tre ore consecutive

Il 14 maggio 1947 con L’albergo dei poveri di Gor’kij, regia di Giorgio Strehler, che vi interpreta anche – un cappello a visiera in testa e una fisarmonica – il ruolo di Alioscia, si inaugura il Piccolo Teatro di via Rovello. 14 maggio 1986: nella Sala Brecht del Teatro Studio, accompagnato dalle tenere note di un trio di Schubert, Giorgio Strehler, come regista e come interprete del ruolo di Louis Jouvet, inizia le prove di Elvira, o la passione teatrale che a giugno inaugurerà il nuovo spazio, da poco “consegnato” al direttore del Piccolo.
Tra un avvenimento e l’altro quaranta stagioni, trentanove anni di teatro. Se gli anniversari hanno ancora un senso, in queste date sta racchiusa una storia teatrale esemplare; la vicenda del primo teatro stabile d’Italia e un magistero registico che conta ben più di duecento messinscene. Giorgio Strehler è felice, in forma perfetta. Dice: «È chiaro che questo luogo non è ancora finito, e che c’è ancora molto da sistemare, ma noi con una volontà che oserei chiamare suicida abbiamo voluto inaugurarlo ugualmente, lavorando, perché ci sembra il modo migliore di celebrare i nostri compleanni. Qui, al secondo piano, stiamo provando noi, al piano di sotto Puggelli ha riunito il suo gruppo di lavoro dedicato alla drammaturgia contemporanea. Un teatro vivo è questo. Però non voglio che si enfatizzi quello che stiamo facendo in questo momento: è la nostra vita di sempre. Eppure mi rendo conto che tutto questo contiene qualcosa di simbolico. È simbolico che si sia scelto uno spettacolo come Elvira, o la passione teatrale, tratto da sette lezioni che Jouvet tenne nel 1940 sul Don Giovanni di Molière al Conservatoire di Parigi, proprio qui, nella sede di quella che fra pochi mesi sarà una scuola. La nostra è, dunque, una scelta che vuole significare una continuità nel futuro. E poi voi siete qui con il direttore del Piccolo Teatro, ma anche con un teatrante che, sempre, si è sentito allievo di Jouvet. Ho dato a Elvira, o la passione teatrale il sottotitolo di rappresentazione. È un testo su cui ho lavorato molto, operando degli inserti di altri scritti di Jouvet sul lavoro iniziale di François Regnault e Brigitte Jaques, che è stato rappresentato quest’anno a Parigi con grande successo. Il testo nasce dunque da queste lezioni sulla scena VI dell’atto IV del Don Giovanni che hanno un andamento irregolare nella loro scadenza: così mi è parso utile spiegare il perché di questa “irregolarità”, seguendo la storia di quegli anni che verrà riproposta tra una lezione e l’altra attraverso dei flash filmati, delle immagini. Come spiegare, infatti, che fra la quinta e la sesta lezione c’è stata l’occupazione tedesca di Parigi?».
I protagonisti di Elvira, o la passione teatrale sono, con contorno di altri giovani studenti, Jouvet e una sua giovane allieva, certa Claudia che oggi ha ottant’anni e che è stata fra i pochi a essere tornati vivi dai campi di concentramento. Strehler sarà Jouvet: «Ma sia chiaro – spiega – io non farò Jouvet; sarebbe ridicolo. Semplicemente testimonierò Jouvet». Claudia sarà Giulia Lazzarini «una delle mie attrici predilette – dice il regista –, il rapporto che c’è fra me e lei è del tutto simile a quello di cui qui si parla. Pensate che dopo vent’anni mi dà ancora del lei e mi chiama “Maestro”… anche se io non voglio».
Sono anni, ormai, che fatta eccezione per qualche recital di poesie, Strehler non recita più in pubblico. Dice agli attori: «Voi lo sapete, io penso che il teatro sia fatto di testi e di attori. Quando il pubblico non c’è io tengo una posizione intermedia fra voi e loro. Poi, quando andate in scena devo sparire. In questo caso, invece, io mi metto allo scoperto, ci sono tutto, do la mia ultima maturità in mano alla gente. L’unica paura che ho è per la memoria: non sono più abituato a recitare una parte così lunga».
Poi si lavora: seduti su bei tavoli di legno chiaro, sotto una luce discreta di lampade verdi di opaline, ognuno con il suo piccolo mazzo di fiori, Strehler con accanto il suo “talismano”, la bacchetta di Cotrone nei Giganti della montagna di Pirandello: e forse anche questo ha un suo significato simbolico.

«Ecco – dice Strehler – potrei cominciare così, seduto, le braccia distese, il busto in avanti proprio come era solito fare Jouvet. Fatalmente però dirò le sue parole a modo mio; sarà, la nostra, un’identità di cose dette da sempre da due uomini diversi fra loro ma con lo stesso amore totalizzante per il teatro».
Si comincia: Strehler legge inesauribile, si muove, si appassiona facendo tutte le parti, ci affascina, ci cattura. Questa Elvira, o la passione teatrale, una «rappresentazione di Giorgio Strehler», come dice il sottotitolo: passione, sudore, e fatica per tre ore consecutive senza un attimo di tregua per sé e per noi. E teatro è anche l’applauso spontaneo che accomuna gli attori e gli invitati alla fine dell’inattesa performance. La prova è finita e Strehler torna a essere il direttore del Piccolo Teatro: parla delle dispense che, mensilmente, verranno fatte pubblicando inediti di Jouvet. Racconta di una registrazione fatta a Parigi nel 1949: un incontro fra Marcello Moretti, il primo Arlecchino, Antonio Battistella, il primo Brighella, e Jouvet sulla Commedia dell’Arte. Poi scendiamo nella sala circolare e ci fermiamo sotto un lungo filare di nuvole di cartone che forse saranno la base della scenografia per Elvira. In quel momento ci pare di capire il messaggio che Strehler ci vuole dare: certo il teatro è tecnologia, lavoro, metodologia e studio, ma è anche nuvole, illusione.

Maria Grazia Gregori, A lezione da Strehler, “l’Unità”, 16 maggio 1986

 

Assistendo alle prove di Elvira, o la passione teatrale, al di là del coinvolgimento che si sente sempre di fronte a qualcosa di oscuro che prende forma mano a mano, l’emozione più grande viene dalla consapevolezza che è sì Jouvet a parlare per bocca di Strehler in una sorta di dialogo diderottiano a distanza, ma che, allo stesso tempo, è Strehler che si rivela attraverso le parole di Jouvet.
È una sensazione più forte dell’incontro, anche traumatico, con un personaggio: è giungere alle sorgenti della teatralità dove pare quasi di poterlo cogliere, finalmente, quel segreto, il loro segreto. È lì, nel nocciolo oscuro della consapevolezza di sé, nella concezione pura – ma dura ed esigente – del lavoro che unifica ai nostri occhi due personalità, due storie così diverse. Sta in quel ricercare ossessivo e inquieto, dentro i minimi e apparentemente insignificanti lacerti delle parole, nei piccoli gesti significativi, negli sguardi, nella capacità di socchiudere con dolcezza, ma senza timore, la porta segreta della memoria dell’attore. E questa volontà, questa discesa impietosa, giù nel fondo, alla ricerca della verità più vera dell’attore – in questo caso dell’attrice – colma di fantasmi, sogni, paure, nasce dall’aver già provato, su se stessi, quell’oscurità da cui, poi, risalire.
L’aveva detto anche Socrate: conosci te stesso. E tutte le parole di Jouvet, la sua recitazione a scatti, la sua immagine imperiosa dalle guance scavate e dalla bocca carnosa, tutto il lavoro di Strehler, la sua ansia mai soddisfatta di giungere al cuore delle cose, tutto quell’andare e venire, su e giù dal palcoscenico, dentro e fuori lo spettacolo, mi è sembrato riconducibile a quella semplice massima: conosci te stesso.
[…] Questo incontro Strehler-Jouvet, dopo molti incontri veri, vere parole e consigli, dopo l’omaggio della regia de La pazza di Chaillot, è la strada prescelta per scrivere un libro – dove le parole sono attori in carne e ossa – sul teatro nel momento in cui lo si fa.
Il risultato non è un metodo scritto, ma un metodo vivo.
[…] L’incontro Strehler-Jouvet in quell’incessante andare e venire dentro e fuori una ribalta di legno, con alcune lampadine accese, “poveri” e semplici segni dell’illusione, riporta il teatro a una dimensione sacrale, a quel momento primario in cui la parola dell’autore incontra l’esserci dell’attore, la sua presenza, a quell’arte maieutica che è propria solo dei grandi registi e dei grandi maestri. E ci parla di un teatro come insegnamento in un luogo che sarà una scuola e che già oggi, nel nome di Teatro Studio, ci riporta agli inizi di un teatro, il Piccolo, che proprio nel nome di Stanislavskij, con L’albergo dei poveri di Gor’kij, si inaugurava.

Maria Grazia Gregori, Jouvet-Strehler: il teatro è un atto d’amore, programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1985/86

Claudia Provvedini. Strehler in prova: un profondo rispetto del mestiere di attore

Spoglio come una basilica romanica, come l’aula di una chiesa francescana, con le capriate a vista, il Teatro Studio sembra ancor più essenziale rispetto alle sale di gran parte dei teatri di tradizione in Italia.
Procedendo per analogie e osservandone più attentamente la struttura, viene poi da pensare a un edificio nordico, non latino, per l’uso dei mattoni rossi, del tubolare in ferro a vista – cordoni di arterie arancione che scorrono tutt’intorno e segnano i quattro ordini di balconate –, delle aperture a monofora una sopra l’altra, come in un falansterio. O meglio, l’immagine che il teatro suggerisce è quella di una fabbrica dei primi del ‘900, dove la macchina, l’elemento veloce, automatico, compete da pari a pari, e forse in subordine, con l’elemento artigianale, l’uomo.
Ecco, una fabbrica del teatro, semplicemente, dove il nuovo si accompagnerà, per sintonia, per simpatia, per continuità, con ciò che è ormai tradizione, classicità.
Ma anche uno spazio per far vivere un’idea di teatro che mette a nudo, in vista, tutti i suoi elementi, i suoi trucchi, semplici, poveri qualche volta, distillati, essenziali: un testo, degli attori, un pubblico e qualcuno che realizzi il collegamento, la comunione tra essi, tra coloro cioè che celebrano un rito antichissimo.
Jouvet è presente, è qui, al Teatro Studio, durante le prove di Elvira. Forse è seduto in un punto qualsiasi dell’anfiteatro, sulle panche di legno chiaro: sta leggermente curvato in avanti – come era sua abitudine – con le mani tra le ginocchia e osserva ogni movimento. A volte, invece – quando il passo di Strehler si fa meno “suo”, le parole che egli pronuncia diventano per un attimo meno sonore, più trasparenti, quasi un’eco di pensieri segreti, usciti dai luoghi della memoria di un “altro” – Jouvet si direbbe lì, in scena.
Poi, tutto precipita di nuovo nell’hic et nunc, in quell’immediatezza del teatro vivo, in atto, che uccide i fantasmi.
All’inizio delle prove la presenza di Strehler era quasi assoluta: troppo vicini a lui quei discorsi, “suoi” quei concetti. Solo il copione pareva restituire loro la paternità, ricostruirne la fonte, non senza però provocare quasi un senso di disagio, come per una perdita d’identità.
Poi, il gioco dialettico e, infine, quegli scarti di tempo, quei miraggi improvvisi e misteriosi alla luce fioca delle lampadine di una scheletrica ribalta – solo un’asta di legno, una chorus line mobilissima, che separa il luogo della rappresentazione da quello della visione – sono diventati sempre più precisi, rapidi, quasi sublimati.
Perfetto il rapporto solidissimo già esistente tra Strehler, regista, e Giulia Lazzarini, attrice del Piccolo, per procedere all’edificazione del rapporto tra Jouvet e Claudia, tra maestro e allieva, che essi ricreano in scena.
Ma tra Jouvet e Claudia il rapporto deve ancora nascere, anzi la pièce è, oltre che la nascita di un’attrice, anche la storia di un travaso di conoscenza e di amore del teatro che deve necessariamente poggiare su una disponibilità umana reciproca.
Assai difficile per i due interpreti, quindi, per le ragioni dette all’inizio, sintonizzarsi sulla stessa frequenza dei personaggi “interpretati”. La disponibilità di Giulia è infatti totale, fiduciosa, plastica senza tuttavia diventare, come dire, fideistica, spersonalizzante.
Strehler ama di tanto in tanto invertire il proprio ruolo di regista con lei, oppure, all’opposto, la muove come un animatore muove la figura di stoffa, il pupazzo, il suo doppio, e Giulia aderisce attivamente, aumentando la forza dei gusti guidati.
La facilità della Lazzarini a entrare nel personaggio di Elvira – l’Elvira spiritualizzata, innocente, palpitante che si scopre in queste lezioni e che sembra chiamare la luce su di sé non appena inizia a parlare –, a entrarvi intimamente, è un’altra differenza fondamentale con Claudia, attrice in formazione, orgogliosa, fredda, con una sua carnalità e una probabile aggressività non solo intellettuale. Il tratto della differenza viene così a moltiplicarsi attraverso le tre figure femminili – Giulia, Claudia, Elvira – e non è tanto nell’accostarsi, nel “farsi testimone” del personaggio di Elvira, quanto nel misurare la distanza dal suo primo doppio, Claudia (a cui più che altro accenna, come per indicazioni sommarie), che Giulia Lazzarini fa consistere tutto il disagio, il rischio di un processo in atto, di un work in progress.
Strehler, dal canto suo, dispone, sceglie, provoca, talora volutamente depista il materiale che ella gli presenta – l’interpretazione di un gesto, di una battuta, di un’intonazione –, procedendo per accumulazione, in un primo tempo, e poi, dopo un lavoro di taglio, per montaggio di segmenti giustapposti.
È vero. Strehler usa gli attori come argilla, materia da plasmare e dunque da toccare, piegare, trattare anche con forza quando essa non si adegua al disegno tracciato e rintracciato nel testo.
Ma ha un rispetto profondo del loro essere attori, del loro mestiere di attori. E a ognuno di essi chiede di creare in ogni momento il proprio personaggio, la propria presenza, anche quando sono esclusi dall’azione o dal dialogo.
L’atteggiamento di Strehler regista è molto tecnico, per quanto estremamente coinvolto: esige dall’attore la produzione continua di energia, concede tregue, sblocca la tensione con divagazioni, citazioni, piccole performance (qui, ricorre spesso al dialetto) che, nel caso specifico dell’Elvira, egli ritaglia anche all’interno della sua stessa fatica di attore. Strehler attore prova la propria battuta inserendola nel dialogo corale. Poi, la estrapola e la “cura”, lasciando sempre qualche zona d’ombra da illuminare un poco alla volta, come per propagazione naturale della luce del testo. Il lavoro che compie sugli attori è più evidente di quello su se stesso, perché il processo di trasformazione che egli subisce durante il corso delle prove è quasi sotterraneo, scavato nella pietra delle parole e dei pensieri di Jouvet, in una lenta osmosi che lo vede anche lacerarsi, combattere con le proprie certezze o con i propri dubbi.
Spesso le battute si colorano dell’atmosfera di un dato momento, si rimettono in gioco ogni volta – nell’intonazione, nel gesto che le accompagna, nelle pause –, come per cercare quella nota più giusta, più intensa che faccia “andare più in là” (in teatro è sempre possibile, dice Jouvet), salire più in alto la qualità dell’orchestra, dell’insieme.
«Il difetto di questo testo – ha detto Strehler durante una prova – è che Jouvet dice sempre cose troppo importanti, di un’intensità tremenda, pesanti come pietre. E ha sempre ragione. Ho cercato di costruire il personaggio di Elvira in un modo diverso da quello suggerito da lui: non è possibile».

Claudia Provvedini, Le prove, programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1985/86

Flavia Foradini. Strehler in prova: in uno stato di continua sorpresa

La prima lettura a tavolino di Elvira, o la passione teatrale chiarisce i motivi che hanno spinto Strehler a scegliere questo testo per l’apertura del Teatro Studio: «Le sette lezioni che Jouvet tenne al Conservatoire nel 1940 sul ruolo di Elvira nel Don Giovanni di Molière non sono un testo molto teatrale, ma tutto ciò che vi viene detto è di importanza fondamentale per la comprensione del mestiere dell’attore: esse devono dunque restare una sorta di documentazione drammatizzata, e il problema che dovremmo risolvere è quello di fare teatro lasciandone però aperte le maglie, per rivelare al pubblico la fatica che il teatro comporta. Nel 1940 Jouvet già pensava a una messa in scena del Don Giovanni, che avrebbe realizzato solo sette anni più tardi: c’erano molte cose che già sapeva, ma altre doveva ancora scoprirle. Su una cosa non aveva però dubbi: Don Giovanni è l’ultima sacra rappresentazione del Medioevo».
Dopo i primi giorni di lettura a tavolino, l’impatto col teatro, con una nuova struttura in attesa di consacrazione […]: «Stiamo cominciando a suonare uno strumento che non conosciamo, che dobbiamo scoprire; ci troviamo in uno stato di continua sorpresa». Una sorpresa che nasce anche dall’intreccio di richiami e di suggestioni che già animano l’edificio: tempio laico, che invita a guardare in alto, verso le capriate del tetto ligneo dove presto le piccole luci di un immaginario firmamento annulleranno il confine tra interno ed esterno e dove sette nuvole ogni giorno diverse ricorderanno antiche forme di teatro; hangar dalle nude pareti di mattoni; anfiteatro a cinque ordini di archi; gradinate da arena circense; pilastri da cascinale padano; balconi di casa a ringhiera, che invitano ad affacciarsi e a godere dello spettacolo sottostante; pista da ballo, officina, fabbrica che non disdegna di esibire i propri segreti, il cui metallo ha il colore del minio – il colore del mai-finito – e il cui legno odora di buono: «Quarant’anni di teatro fatto in un certo modo sono sconvolti».
[…] Dove disporre gli allievi in una rappresentazione che trasforma l’intero teatro in scuola di teatro? Dopo una prima riflessione, che aveva diviso e mescolato il gruppetto di aspiranti attori al pubblico, Strehler richiama gli allievi al centro della sala. Per essi vale l’insegnamento di Jouvet: «Se entrate nelle orme dei personaggi, troverete anche il modo giusto per interpretarli».
Le loro posizioni vengono controllate per mezzo delle foto di scena e dei monitor che costantemente rimandano le immagini dell’azione. Strehler sottolinea l’importanza di saper creare anche un personaggio che non parla: gli allievi si differenzieranno dunque soprattutto attraverso i loro atteggiamenti, le loro reazioni fisiche a quanto Jouvet dirà loro.
Si muoveranno con naturalezza in un contesto – la classe – a loro familiare. Il loro rapporto con Jouvet non sarà dialettico perché, spiega Strehler, al tempo in cui si svolsero le lezioni l’atteggiamento dominante nei confronti di un maestro era la sottomissione. Non così per Claudia, che ha già vissuto esperienze di teatro, che è già attrice. Il suo rapporto col maestro sarà più controverso; quello coi compagni, meno complice.
[…] Giulia è diversa da Claudia ed Elvira è un personaggio lontano da tutt’e due. Ma Giulia deve trovare la lontananza di Claudia da Elvira e neutralizzare la propria. Per Giulia, alle indicazioni di Jouvet sul ruolo di Elvira, si aggiungono, si sovrappongono quelle di Strehler sul ruolo di Claudia: «Claudia è dura, antipatica, sensibile, dice spesso “non ce la faccio”, ma sa recitare; fin dalla prima lezione il pubblico deve pensare che è brava, deve irritarsi dell’esigenza di Jouvet. Anche se le sue critiche la fanno piangere, Claudia trattiene le lacrime, risponde aggressiva, si prende delle libertà, si toglie le scarpe, si siede spesso quando il maestro le parla. Claudia casca nei tranelli che le tende Jouvet, reagisce prontamente quando il maestro pungola il suo orgoglio di attrice, e si lascia forgiare, modellare, lezione dopo lezione, fino a giungere a ciò che Jouvet le chiede».
…] Dopo quarant’anni, di nuovo sul palcoscenico. L’emozione è profonda, il doppio compito di regista e attore oneroso. Quando imparare la parte? Come controllare l’azione scenica e recitare insieme? Alternanza di ruoli, stare nel cerchio e balzare fuori dal cerchio, essere Strehler mentre si è Jouvet: «La gente si chiederà: ma è Jouvet o Strehler?».
Fin dai primi giorni, levare lo sguardo che segue le battute del copione significa non poter più distinguere tra le parole stenografate di Jouvet e quelle dette di Strehler. Le aggiunte fatte per meglio sottolineare, per chiarire i commenti, le indicazioni, si fondono e si confondono col testo: dove finisce la lezione di Jouvet e dove inizia quella di Strehler?
Di Elvira, o la passione teatrale Strehler non firmerà la regia, bensì la rappresentazione, e gli attori non interpreteranno le parti loro assegnate: Strehler testimonierà per Jouvet, Giulia Lazzarini testimonierà per Claudia.
«Come si vestiva Jouvet? Non importa. Non potrei mai mettermi davanti allo specchio e cercare per ore e ore di truccarmi e vestirmi per assomigliargli. Non avrebbe alcun senso. Le sue parole le dirò come se le dicessi io, e talvolta ho l’impressione di dire parole mie, anche se io, contrariamente a lui, non ho mai scritto le mie impressioni dopo le recite. Ma quando il teatro è fatto con umiltà e con amore, è sempre uguale, è sempre lo stesso; per questo l’identità che turbava Giulia e me all’inizio delle prove, quel non sapere di chi sono le parole che si stanno dicendo, ora non ci turba più».

Flavia Foradini, Le prove, programma di sala di Elvira, o la passione teatrale, stagione 1985/86

Giulia Lazzarini. Un’appassionata riflessione sul mestiere dell’attore

Elvira, o la passione teatrale è stato un altro spettacolo che ho molto amato: ero sola in palcoscenico con Strehler e mettevamo in scena proprio il rapporto regista-attrice. […]
Elvira non era solo un evento teatrale, ma metateatrale. Intanto, con esso è stato inaugurato il Teatro Studio, quindi uno spazio non tradizionalmente teatrale, ma simbolico di uno stare insieme, un’aula, un luogo di convergenza di desideri, uno spazio insolito. Il pubblico ha partecipato a una lezione di teatro, dunque non a un vero e proprio spettacolo anche se poi tale è divenuto, mostrando che l’attore lotta duramente per trovare la sua liberazione e il giusto sentimento della battuta e, vivendo sulla sua pelle determinate sofferenze, conquista una maturazione. Alla fine la protagonista rompe finalmente l’involucro che la rendeva non attrice, ma buona esecutrice tecnica, arricchendo cioè la sua tecnica di vissuto, di esperienza, di un sentire alto. L’intelligenza a teatro, diceva Jouvet, non è un fatto solo di testa. L’attore spesso recita con la testa mentre invece ciò che conta, cioè l’intelligenza teatrale vera, è un sentire alto e profondo. Come dice Pantalone all’inizio dell’Arlecchino il teatro si fa con il cuore e la testa.

Riportato in Giorgio Strehler e il suo teatro, a cura di Federica Mazzocchi e Alberto Bentoglio, Roma, Bulzoni, 1997

 

Jouvet fu il primo ad aprire le porte della Francia al Piccolo e Strehler non l’ha mai dimenticato. Elvira non è che un’appassionata riflessione sul mestiere dell’attore. Il mio personaggio, Claudia, si confronta con il ruolo di Donna Elvira nel Don Giovanni di Molière. Lei, attrice ebrea, sente la tragedia che si sta abbattendo sul suo popolo nei primi anni Quaranta.
[…] All’attore spetta il compito di trasformarsi nel tramite del testo. Deve accostarsi al personaggio con tutta la creatività, l’intuizione e la sensibilità possibili, conservando però la distanza tra ciò che interpreta in scena e la sua vita reale. Altrimenti, è perduto.
[…] In altre parole, occorre partire dalla perfetta osmosi con il personaggio “alla Stanislavskij”, per approdare a una dimensione d’attore brechtiana. E il regista coordina queste individualità, come farebbe un direttore d’orchestra.

Riportato da Valeria Crippa, Strehler e Lazzarini in coppia per Jouvet, “Corriere della Sera”, 19 giugno 1997

Rassegna stampa

Un gioco di specchi e di finzioni raddoppiate

Un campanello trilla senza percutorietà, ma con fermezza e invita a entrare senza altri indugi. Ora tocca il cuore una dolcissima melodia (è il motivo di un trio di Schubert) e predispone alla comunione gli spettatori che, sulle gradinate, fan cerchio e abbracciano quella che una volta era una platea popolata di fermissime poltrone, e ora è uno spazio che nasce là, in fondo, dove si collocava, sopraelevato, il palcoscenico. L’anfiteatro è amichevolmente curioso, ma anche un po’ sorpreso: deve adattarsi a nuovi rapporti con lo spazio e gli attori; di più, ciascuno ha un vicino da ogni lato, è come allo stadio, e anche qui sarà propriamente un agone. E son tutti alla pari, come in chiesa.
Ma ecco che si fa buio, o meglio il buio sale verso la volta a capriate dove le lampade che la punteggiano si mutano in stelle: ed è cielo, percorso da filari di nuvole come in uno sfondo scenico. Tale memoria e gloria celeste si attenua anch’essa. Si fa silenzio e attesa. Ed ecco un riflettore sparare su Louis Jouvet, alias Giorgio Strehler. Sono le 20:45. In questo istante è nato, dalle sue stesse ceneri, il nuovo Fossati; ora: Teatro Studio del Piccolo Teatro.
È nato con uno spettacolo singolare, commosso e riflessivo. È nato rendendo omaggio a un maestro e predicando un’idea di teatro coltivata fedelmente per decenni; indicando l’eccellenza di una lezione rigorosa e la sua continuità. Uno spettacolo-lezione, appunto, a futura memoria di un modo di intendere (di amare) il teatro e di farlo, in questo Teatro Studio che vuole essere luogo di scuola, cioè di apprendimento e di sperimentazione, di fabbrilità e di sogni.
Quattrocento persone attorno a uno spazio nudo, come a un nido preparato per parole-uccelli, che volino e arrivino dovunque: con amore, perché il teatro è quell’amore che sta dentro il concetto di servizio, è comunicazione di sorprese del cuore e di verità del cuore e della mente, è comunicazione diretta dell’attore che rischia se stesso fino in fondo. È stata una festa, perché questo teatro diverso nasceva nell’umiltà e nella speranza, nella memoria e nella promessa, festeggiando anche se stesso e la propria capacità continua di rigenerarsi pur nel segno della gratitudine verso i padri e maestri di ieri. […]
Strehler ha pensato che, a inaugurare questa sala e questo complesso dagli usi particolari, fosse il messaggio di un grande attore e regista: Louis Jouvet. Stato suo ideale maestro, e da ciò l’omaggio, ma soprattutto stato una figura di “comédien” esemplare per generazioni di artisti. Un attore e regista non chiuso nei suoi ruoli, ma in grado di riflettere assiduamente sulla propria professione.
Un uomo che credeva nel teatro (e in qualcos’altro), che ne fece un momento del suo mistico considerare la vita, che lo intendeva come epifania di sentimenti, che lo viveva come ascesi e missione, tremando sempre davanti a esso come davanti a un mistero. Louis Jouvet tenne, al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi, tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940, sette lezioni che riguardarono la scena sesta del quarto atto del Don Giovanni di Molière. […]
Queste lezioni, che furono stenografate e pubblicate, sono qui essenzialmente rispettate e vengono integrate da altre riflessioni: il tutto è preceduto dalle note interrogatrici sul mestiere dell’attore spese da Jouvet nel camerino di un teatro colombiano, durante una tournée nell’aprile del 1943, vivendo egli allora lontano dalla Francia invasa; e da un breve intervento illustrativo dello stesso Strehler.
Eccoli ora in scena, Giorgio Strehler e Giulia Lazzarini: non a imitare lui Jouvet e lei Claudia, ma a incarnare, lui, l’idea di teatro inseguita e trasmessa dal suo maestro e, lei, a provarsi in un immaginario avvicinamento e addestramento alla parte. Il regista che condivide e arricchisce quei pensieri e l’attore che conferisce loro naturalezza, calore, forza di persuasione: identità e sdoppiamento.
Per un attore non è necessario identificarsi con un personaggio, cancellarsi per essere e vivere, ad esempio, Don Giovanni: ciò sarebbe diabolico, invero. Ma nel rapporto Strehler-Jouvet esiste una fondamentale identità di vedute circa la missione teatrale e, però, qui, sul segno di questa platea-palcoscenico, Strehler è se stesso e il proprio modo di insegnare, di lavorare al corpo dell’attore, di cavarne fuori le più riposte virtù. Avvertiamo bene che la sua esposizione dei concetti del francese, dei suoi ragionamenti, è una appropriazione che acquista forma nuova, espressione autonoma: stiamo, in definitiva, ascoltando una lezione di Strehler che interpreta se stesso (e come potrebbe rinunciarsi?). Di là dalla sostanza sacrosanta delle cose dette (il primato assoluto della parola, il valore del sentimento, l’avere una “regola” interiore, l’implacabile domandarsi, il perenne artigianato, la qualità della passione teatrale, che è devozione e sacrificio), abbiamo il modo con cui Strehler assume le battute del testo, esercitando – qui con l’additivo di una ulteriore finzione – l’arte maieutica e stregonesca del regista. Qui in splendida umiltà, quando segue la mirabile indagine di Jouvet sul personaggio di Elvira, l’approfondimento della sua natura religiosa (Elvira, già: che la Lazzarini deve mostrare di non sapere, e quindi leggere «con bravura, s’intende», ma non interpretare). Poi, gradualmente, avverà l’escalation verso la comprensione piena del personaggio, premessa (anche in virtù di acquisizioni tecniche) di una interpretazione luminosa. E l’attrice compie una splendida performance, salendo dalle scolastiche prove iniziali alla conquista espressiva attraverso crisi e ribellioni (le crisi e le ribellioni di Claudia) con tutte le difficoltà connesse col non dover parere brava, per di più sapendo già il traguardo garantitosi nelle prove. Tutto, infatti, è già avvenuto anche sul piano interpretativo, l’attrice ha dato ennesima conferma di possedere in ogni posa una sensibilità e freschezza e duttilità uniche nel panorama italiano. Per questo gioco di specchi e di finzioni raddoppiate, lo spettacolo è divertentissimo, non meno che incalzante e non meno che commovente, se appena si entri in sintonia con le verità di Jouvet, che hanno buone carte per essere le verità di un teatro per l’uomo: bravo, giusto e sano all’interno. Quante volte ritorna la parola purezza, come se gli attori dovessero sempre stare candidati (nel senso etimologico) di fronte al teatro, sperando di venirvi accolti per provare dignità, ammessi al suo mistero.
Serata memorabile: conclusasi in un profluvio di fiori e di coriandoli.

Odoardo Bertani, “Avvenire”, 2 luglio 1986

La rivincita di Strehler

Un grande rito per la nascita di un nuovo teatro, che si risolve in una commossa, meditata, dolente riflessione sull’arte del teatro oggi: questo è il significato della serata inaugurale del Piccolo Teatro Studio con Elvira, o la passione teatrale da Jouvet, protagonista Giorgio Strehler.
Un rito che ha anche un suo cerimoniale, toccante e futile, affettuoso e mondano a un tempo: la gran ressa nel limpido foyer, uno stringersi di mani, un baciarsi e abbracciarsi tra gente che divide, giorno dopo giorno, da anni, lo stesso mestiere e che, magari, nella logora realtà, è divisa da aspre polemiche; poi tutti, di buona lena, a prender posto nell’emiciclo di legno e mattone […].
Ma quando suona, esile esile, la campanella del «Chi è di scena», c’è un silenzio altissimo, davvero di chiesa (e quella che Zanuso ha riattato è, in effetti, una splendida cattedrale “laica”): d’un tratto, nel cono di luce al centro dell’impiantito, su una modesta seggiola da palcoscenico, si staglia, candido e vigile, Strehler.
Legge, in un misto di stanchezza e d’orgoglio, un groppo d’appunti di camerino di Jouvet, presi addirittura nella remota Colombia nel 1943 («Lo spettacolo è finito. Nessuno è venuto a trovarmi. Sono salito nel mio camerino, solo…»): è il prologo “aperto” alla serata, nel senso che non consegna messaggi, non propone ricette né offre soluzioni: «Dopo trent’anni di pratica, il teatro mi appare ancora, in tutti i suoi aspetti, soltanto come un mistero…».
Ed eccoci dentro il mistero, nel suo labirinto buio, che solo a tratti la ragione e il cuore di un adulto e di otto giovani, di un maestro e dei suoi allievi riescono, a stento, a illuminare: siamo nel mistero e nel labirinto della recitazione, dell’interpretazione, della finzione in sette minuziose, fervide, a tratti crudeli lezioni su una scena sola, la sesta dell’atto quarto del Don Giovanni di Molière.
È la scena in cui Donna Elvira implora il suo seduttore di redimersi: e sono le lezioni che realmente Jouvet tenne al Conservatorio di Parigi, tra il febbraio e il settembre 1940 […].
Si staglia il ceffo baffuto del Führer laggiù, sulla parete mattonata, ne udiamo la voce stridula di fantoccio imbonitore; ma qui, nel cerchio magico odoroso di resina, rabbia, follia, violenza non hanno signoria: qui un attore di cinquantatré anni è impegnato, in un silenzio sospeso, in un corpo a corpo che ha davvero qualcosa di estremo, di definitivo, con le regioni perentorie dell’Arte, della Poesia.
La sorpresa sconvolgente della serata, almeno per chi scrive, è come Strehler non reciti, ma sia Jouvet attraverso quelle sette lezioni. Intanto, per due ore filate, non ha un vuoto di memoria, neppure trascurabile: è tutto in presa diretta, con un tempismo assoluto, che non conosce esitazioni, ripensamenti, né, come si dice in gergo, “pezze” o “tamponi” dell’ultimo istante. Semmai, all’opposto, si concede lievi improvvisazioni, in cui sfoga la propria ironia: ma sono variazioni in punta di penna, che il pubblico non fa a tempo ad applaudire che già sono rientrate nell’alveo del copione, seguito alla lettera.
E poi si resta impressionati dalla naturalezza con cui svaria da uno stato d’animo all’altro del suo personaggio: tenero e collerico, caparbio e spossato, non è mai “caricato” negli effetti, ma d’una misura che affascina, lui che nelle prove è spesso, a scopo didattico, di un effettismo debordante, di una smargiassa gigioneria. Lo si vede da certi barbagli dello sguardo, da certe occhiate in tralice, che dopo anni, dopo decenni, dopo duecentocinquanta regie, si sta prendendo la sua rivincita: ma non vuol profittarne, anzi si intuisce che vuol conquistarci tutti per l’arte del “levare”.
Ci sono momenti di autentica commozione in questa sua impresa: la seconda lezione, ad esempio, che è a mio avviso la più inquietante di tutte, sull’altezza del sentimento in Molière e sul modo di interiorizzarlo senza viverlo davvero è in lui perfetta per tensione intellettuale, rigore morale, forza espressiva.
Ho parlato, com’è giusto, molto di Strehler; ma voglio dir subito come la serata non sarebbe stata né così bella né così piena se il maestro non avesse goduto di un’allieva assolutamente eccezionale: quella Claudia che si sforza, a prezzo di un agonismo sfibrante, d’essere Elvira nella più difficile scena, forse, di tutto il teatro molieriano. Questa Claudia è una magnifica Giulia Lazzarini, magnifica per l’esacerbato furore con cui tende a ogni costo a impossessarsi di quel ruolo sfuggente, magnifica per le stanchezze, per l’abbandono alla propria fralezza: sino a un’esecuzione finale, davvero vertiginosa, del grande incontro tra seduttore e sedotta, tra sacrilego e redenta, che è tutta un’aerea partitura di gesti e fiati, quasi un transumar sussurrando nell’implorazione del riscatto.
Appena scende il buio finale, scoppia un uragano di applausi, garofani bianchi, rosa, rossi cadono a gragnuola dall’alto, un pulviscolo di augurali coriandoli bianchi inonda il pavimento.

Guido Davico Bonino, “La Stampa”, 2 luglio 1986

Festa per l’amico teatro ritrovato

Festa per l’amico teatro ritrovato. Tutta la Milano intellettuale e mondana si è mobilitata per riscoprire o forse scoprire – il Teatro Fossati, una volta tempio dell’edificazione popolare, scena di drammoni, commedie dialettali, riviste, e ora «da secolare squallore a vita nova restituito», eletto al rango di Teatro Studio del Piccolo, a sua volta diventato, con merito, Teatro d’Europa. Del vecchio, proletario Fossati poco è rimasto, nemmeno l’ingresso da corso Garibaldi: infilando l’androne dominato dalle statue in cotto di Anita, sopra, e Giuseppe, linde e illuminate, abbiamo rischiato di restare chiusi in un cortile che non portava da nessuna parte. Si accede dall’altro lato, da piazzale Lanza dove si profila il grande teatro nuovo che completerà, con l’ex Fossati, un centro teatrale che in Italia mancava […].
Del Fossati sono rimasti l’involucro in mattoni a vista da basilica bizantina e quattro ordini di balaustre, dove, un tempo, con pochi soldi si potevano seguire gli spettacoli stando in piedi. Palcoscenico e platea sono saldati in un unico plancito in legno […].
Un teatro, ci abbandoniamo alla retorica, è vita per una città, per un quartiere: può maturare le immagini, le abitudini. Un teatro – che sia un teatro con la struttura culturale prestigiosa del Piccolo alle spalle, illuminata dal genio di un uomo come Strehler – un teatro è capace di attivare iniziative di ogni genere. In corso Garibaldi la parola teatro figura sulle insegne di negozi ed esercizi, la gente si affaccia alla finestra, partecipa, capisce che il teatro può modificare, in meglio, l’esistenza di una strada, di un isolato, di una zona cittadina.
La festa per l’amico teatro ritrovato, quindi, prim’ancora che all’interno del teatro, si è svolta fuori, e non soltanto lunedì sera, ultimo dì di giugno, ma in tutti i mesi passati, da quando cioè si è posto mano ai lavori per il recupero del Fossati e la costruzione del grande teatro per l’Europa.
Per la festa preziosa, riservata a personalità, celebrità, amici, critici e abituali frequentatori della casa del teatro, Strehler non è ricorso a uno spettacolo propriamente detto – sarebbe stato perfino troppo banale, ma ha concepito una “rappresentazione” che potesse spiegare teatralmente il lavoro del teatro. Non è certo la prima volta che si fa del teatro sul teatro (gli esempi più recenti ci vengono dal teatro anglosassone: Harwood, Frayn, Stoppard), ma Strehler ha fatto qualcosa di più e di diverso che intessere una drammaturgia sull’essere attori, o registi, o portaceste. È andato oltre, mettendo in scena il “suo” teatro, se stesso e i suoi attori, rivelando, per chi non fosse edotto, il procedimento misterioso, affascinante, delirante della lettura di un testo, delle possibili interpretazioni, dell’aspro cammino verso la comprensione di un personaggio, delle gioie, immense e caduche, degli smacchi cocenti, del sudore, delle emozioni che accompagnano la costruzione di una sola scena.
Ritratto di compagnia in un teatro? Non proprio, sarebbe stato, in definitiva, un episodio teatrale come un altro. Strehler ha moltiplicato, intrigato il gioco, specchio su specchio, filtro su filtro. A conclusione di una profonda ricerca sull’amato Louis Jouvet, protagonista della scena francese dal 1920 al 1951, anno della morte, Strehler ha ordinato armonicamente sette lezioni che il maestro francese tenne tra il febbraio e il settembre del 1940 al Conservatorio di Parigi, individuando come traccia principale le prove di scena del Don Giovanni di Molière, la sesta del quarto atto, in cui esplode il dramma di Elvira, sedotta, ma profondamente innamorata di Don Giovanni, al punto di scongiurarlo di pentirsi e di salvare, così, la sua anima.
Nasce Elvira, o la passione teatrale, sette lezioni di Jouvet, affollate di concetti, di definizioni, di stati d’animo del grande artista, evidentemente condivisi da Strehler, che diventano un’occasione per il regista di dichiarare il proprio atteggiamento verso il teatro, i rapporti con gli altri attori, la religiosità di una vita votata al teatro, la laicità dubbiosa e inquieta di fronte ai suoi misteri. È Jouvet che racconta l’avventura di Claudia, giovane attrice che affronta il personaggio di Elvira, o è Strehler che si guarda allo specchio, dove vede riflessa Giulia Lazzarini che attraverso Claudia vuole l’anima di Elvira? Quanto c’è di Jouvet, e quanto di Strehler? Quanto appartiene a Molière et la Comédie Classique di Jouvet, e quanto è vissuto? Quanto mandato a memoria, e quanto improvvisato in un tormentoso ed esaltante entrare e uscire da sé? Quanto sono voluti gli irritanti (e comici) parlarsi addosso, le interruzioni traumatiche, i silenzi da trama, il gestire medianico, le battutacce che spezzano attimi di tensione insopportabili, il riso nervoso, l’abbraccio liberatore? Solo chi ha saputo, o potuto, sporcarsi le mani – parole di Strehler – con il teatro può capirlo e commuoversi.
Nelle prove, sette come le porte dell’inferno e i veli di Salomè, che condurranno Claudia a conquistare il personaggio di Elvira, c’è la lezione di Jouvet, ma c’è soprattutto il senso dell’opera e della filosofia di Strehler. […]
Il tempo scandito da fosche immagini documentarie del nazismo trionfante, Elvira, o la passione teatrale racconta la sofferta conquista di Claudia, giovane attrice ebrea, Elvira per una sera, poi deportata e fra le poche sopravvissute ai campi di sterminio, ma è anche, e soprattutto, un atto di fede nell’utopia del teatro come uno dei pochi mezzi di cui l’uomo dispone nella lotta contro la demenza dei potenti.
Inutile aggiungere altro. Ciò che conta è il significato della “rappresentazione” di Strehler, ritrovato come attore scintillante. Ma non si può tacere il contributo di Giulia Lazzarini, allieva diligente e devota, come Claudia, donna appassionata, come Elvira conquistata, e ironica interprete di se stessa. Con loro, sette giovani, ex allievi di scuole di teatro […].
Applausi, applausi, applausi, fiori, invasione di palcoscenico, baci e abbracci.

Paolo Lucchesini, “La Nazione”, 2 luglio 1986

Una sublime scena d’amore

Una segreta congenialità unisce Strehler a Jouvet, che egli considera suo maestro. Anche per Strehler tutto è nel testo; e la regia non è che un lavoro inteso a valorizzare la parola del poeta. Perciò nello spettacolo dell’altra sera si notava un processo di immedesimazione fra Strehler e l’immagine di Jouvet. Ma si trattava d’un processo di immedesimazione in cui Strehler rimaneva se stesso, coi suoi tic, la sua tipica maniera di dirigere le prove, maieutica e appassionata, controllata ed esorbitante; e quel suo particolare modo di intendersi con colei che è una delle sue attrici preferite, Giulia Lazzarini, fatto di ammiccamenti, d’una specie di trasmissione per via fisica del dato interpretativo.
Questa immedesimazione Strehler-Jouvet si notava particolarmente nel prologo, che è stato tratto dal primo capitolo e dall’introduzione di Le comédien désincarné. Qui c’è, alla fine di uno spettacolo, in un camerino deserto, davanti a uno specchio muto, tutta una serie di riflessioni e di dubbi di cui abbiamo sentito tante volte l’eco nella viva voce del regista; e ne abbiamo letto alcuni commenti nei suoi scritti.
Lo spettacolo, poi, è molto semplice e suggestivo. Strehler-Jouvet è lì, isolato in un cerchio di luce, nel grande spazio centrale. Nuvole da scenografia barocca pendono dall’alto, segno dell’artificio. Ed ecco irrompere in questo regno della meditazione fantastica la realtà brutale di fuori, proiettato sul fondo il mascherone di Hitler si scompone isterico gridando le ragioni della violenza e della sopraffazione, sfrecciano le ombre degli Stukas che sgranano il loro rosario di bombe.
Non importa, la lezione comincia. Entrano gli allievi, Giulia Lazzarini per ultima, col suo volto fine già toccato dai presagi della sofferenza istrionica. Dà voce alle parole di Donna Elvira : «Vi ho amato con una tenerezza infinita, nulla al mondo mi è più caro di voi…». Per tutte le sette lezioni la non lunga scena di Donna Elvira viene ripresa, frazionata, sviscerata nei suoi più intimi recessi verbali. Jouvet dimostra con la sua puntigliosa analisi testuale che non si tratta di un discorso moralistico ma di una sublime scena d’amore, di quell’amore che non chiede nulla per sé ma è puro dono all’altro perché imbocchi la via della salvezza. Per viverla, bisogna partire dalla sensibilità, portare nella pratica della scena «un enorme afflusso di sentimenti»; mettere da parte l’intelligenza, allenarsi soltanto a «sentire giusto».
In questa fosforica cascata di sentenze, di argomenti pedagogici, di dichiarazioni, c’è anche qua e là un pizzico di nobile retorica, senti il pragmatico che non si basa su alcun sistema e talvolta cede a una certa enfasi. Ma ci trovi anche folgoranti intuizioni critiche […].
E a poco a poco fra dubbi, scoramenti, cadute di tensione, Claudia riesce a raggiungere il sublime in quella scena di Elvira. «Ora sì», dice il maestro, «ho sentito questa scena per la prima volta». E accoglie sul suo petto l’allieva piangente. Così termina Elvira, o la passione teatrale. Con quelle lacrime ma anche con l’informazione che Claudia, arrestata come ebrea dalla Gestapo, riuscì a sopravvivere ai campi d’annientamento e tornò al teatro, ma quel momento magico di Elvira, accanto al suo maestro, non lo ritrovò mai più.
Lo spettacolo si regge tutto sulle spalle di Strehler e Giulia Lazzarini. Lei è di una bravura mostruosa nel rendere le varie fasi di disperazione e di euforia dell’allieva alle prese con la lenta, interiore conquista del ruolo. Ci mette anche, a rompere la tensione, qualche leggerissima impennata comica, fra la timidezza e la ribellione. E nella sequenza finale ci dà a tutto tondo il tragico personaggio molieriano, cui conferisce una soavità d’accenti davvero ineffabile.
Strehler, interprete e regista, non tanto fa Jouvet quanto, come è giusto, se stesso. Nelle teorizzazioni-intuizioni del Maestro egli mette, con molto senso della discrezione, le proprie variazioni personali. È, già s’è detto, come vederlo a una di quelle sue prove al Piccolo, quando guida gli attori e brilla in lui un ineffabile istinto maieutico. Soltanto che egli ci mette qui la consapevolezza critica dell’interprete che dimostra il suo personaggio e insomma un elemento di secondo grado. E come attore non sbaglia un tono.

Roberto De Monticelli, “Corriere della Sera”, 2 luglio 1986

Con Strehler il teatro non si ferma mai

Ovviamente, Strehler non imita Jouvet – con il quale ha lavorato tre anni. Strehler è Strehler, e non dimentica, né vuole far sembrare di dimenticare la sua poetica, la sua esperienza. Strehler è se stesso. Regista e maestro. Ma se con Elvira inaugura la sua scuola, la sua partner è un’attrice conclamata e non un’allieva. È Giulia Lazzarini. Nella Tempesta era, infatti, Ariel, spirito dell’aria che danzava nel cielo, appesa a una fune, e si posava senza rumore, leggero come un bianco petalo. Nonostante Strehler e l’attrice abbiano a lungo lavorato assieme, Lazzarini segue le indicazioni di Jouvet trasmesse da Strehler con goffaggini, scivolate, domande, ribellioni, con una tensione che sembra devastarla. E il suo personaggio si costruisce, si forma, si fa magnifica Elvira. Poi lei sparisce mentre, sul muro di fondo, è proiettato un video: l’entrata dei nazisti a Parigi. La storia si svolge nel 1941, la ragazza è ebrea, è stata deportata. Lo spettacolo riporta qualche tratto dell’epoca – una sirena, la luce povera di un’elettricità razionata, i cappotti addosso perché faceva freddo e anche il riscaldamento era razionato.
[…] C’è, nello spettacolo di Strehler, questa specie di fiducia inalterabile, forse utopica, nella morale artistica, nella forza dell’arte nonostante gli aspetti ridicoli, i cappelli con le piume e le gorgiere che servono agli allievi per costruire i loro personaggi. C’è la potenza di un gioco dalle regole inesprimibili, da tutti conosciute. Uno strano gioco. La situazione di partenza è semplice: un professore sta facendo lezione. Ma, a seconda che questa lezione sia tenuta da Philippe Clévenot [l’interprete della prima edizione di Elvire Jouvet 40, n.d.r.] o da Giorgio Strehler, il risultato è assolutamente diverso. Si viene immersi al centro del teatro e della sua famosa magia, in quelle verità essenziali, indefinibili, portate dalle parole, nonostante le parole, e traferite da un personaggio all’altro.
[…] Strehler parla, recita delle parole. Il teatro continua anche dopo la fine dello spettacolo. Con Strehler, non si ferma mai.

Colette Godard, “Le Monde, 9 luglio 1986

Il grande Giorgio è uno stregone

«Il teatro è come un bambino. Nasce e va allevato con tenerezza, amore, assiduità. Ecco perché il Teatro d’Europa che viene alla luce adesso, dopo lunga gestazione, io lo prendo e lo metto tra le vostre braccia. Vogliategli bene, abbiatelo a cuore, assistetelo, è vostro». Pressappoco con queste parole Giorgio Strehler ha inaugurato il nuovo Piccolo Teatro di Milano, Teatro d’Europa appunto. Strehler, dopo questo preambolo alquanto coinvolgente, ha recitato con Giulia Lazzarini le Sette lezioni di Louis Jouvet da “Elvira, o la passione teatrale” […].
Ma non tanto l’Elvira è andata diritta ai sensi degli spettatori, quanto il carisma di lui, Strehler, e il fascino del nuovo ambiente, uno spazio semplice, carico di raccoglimento religioso, una specie di chiesa dove si fanno e si dicono delle cose umane, si raccontano sogni, amori, passioni, pentimenti, favole, si eleggono simboli, si affacciano problemi di vita. Una cosa assai più importante di qualche muro attorno a un luogo che “serve” allo spettacolo.
Non a caso Strehler ha cominciato con queste Sette lezioni che si tennero realmente tra il 14 febbraio e il 21 settembre 1940 al Conservatorio d’Arte Drammatica di Parigi, un atto d’amore al teatro e a Louis Jouvet, suo maestro, quel Jouvet che predicava fratellanza e comunicazione in un momento terribile per l’Europa, calpestata dal piede dell’esercito nazista. La satanica guerra hitleriana con le sue macabre follie è stata messa magistralmente nell’aria, innestata sul ramo dolcissimo della ricerca di dialogo esplicita in quest’Elvira, tramite spezzoni di documentari originali gettati sul muro di fondo con distorsioni mostruose: e forse qualche brivido è corso per la schiena degli spettatori. Ma l’amore, l’amore, l’amore, parola usatissima e però sempre a proposito, ha presto sconfitto il ricreato orrore, dilagando dal testo giunto a noi per stenografia e in cui ci si rende conto di come Jouvet tentasse di ricavare dalla sua allieva Claudia, calata nella parte di Elvira nel Don Giovanni di Molière, il massimo della tenerezza, una «tenerezza infinita» secondo quanto la Lazzarini dichiara di volta in volta con voce straziante.
Il teatro, associato all’Odéon di Parigi e al Centro Dramático Nacional di Madrid, quei muri che Strehler vuole ignorare, è peraltro un capolavoro di seduzione. Travi a vista punteggiate di lampadine come tenere stelle, panche di larice, pavimento di legno a grandi assi, stile tirolese, e intorno al tutto-palcoscenico file di ringhiere come nei vecchi cortili di periferia. Teatro populista? Macché. Un teatro raffinatissimo, anzi, nella sua voluta semplicità. È firmato, del resto, da Marco Zanuso. Ma il grande Giorgio certo che ci ha messo lo zampino. Le nuvole che pendono dal soffitto-cielo sono, ad esempio, un’espressione della sua anima romantica.
Il grande Giorgio è uno stregone.
Assicurano le biografie che è nato a Trieste, lasciamo perdere l’anno, Trieste la città mitteleuropea di Saba e Svevo. I pensieri del grande Giorgio sono però misteriosi, complicati, quando parla mi viene in mente Friedrich, stupendo pittore di sogni e di incommensurabili solitudini. Per di più veste sempre di nero, mentre Trieste è variopinta: non ho mai visto gente amare il colore come a Trieste. E così, mentre lo ammiravo recitare il “suo” Jouvet, mi è piaciuto fingermi che quell’uomo tutto nero, comparso in mezzo alla scena da un gorgo di buio, fosse nato in Transilvania, nei Carpazi, terra di vampiri, gli inafferrabili vampiri che sfuggono alla sintassi normale della vita e della morte spargendo intorno un virus incantatore. Anche Strehler, come questi magici inesausti personaggi, succhia il sangue che è ovviamente il sangue dello spettatore: fuori gli umori che gli fanno amare il teatro per il teatro, e dentro quelli che gli fanno amare il teatro per la vita. Per lui dev’essere triste separarsi dal suo pubblico perché il suo miraggio è d’inglobarlo, fagocitarlo, farlo battere all’unisono con il suo cuore: non a caso l’àlea, la casualità, l’impreciso, le trombonaggini sono ferreamente esclusi dai termini del suo spettacolo (e non parliamo dell’Elvira ridotta all’osso).
A dirla scenograficamente, gli mancava solo il mantello, un bel mantello nero abbottonato sopra il dolcevita; vedevo una piramide cupa (ricordate i cardinali di Manzù?) da cui emergeva, autoritaria, la bella testa argentea, ricca di fulminei riflessi sotto i riflettori. La vedevo realmente quella piramide di vampiro ammantato, tanto più che la Lazzarini, vicino a lui, pareva a ogni minuto più esangue, più eterea, più fragile, una vittima.
Ho letto che Stanislavskij nel suo tempo si comportava allo stesso modo: niente “théâtre de hasard”, ma un teatro dove ognuno sputasse l’anima fino all’ultima briciola. E anche il pubblico, partecipe dell’idealità dell’impresa. Stanislavskij scrisse Il lavoro dell’attore su se stesso, un manuale che precorre lo spirito delle lezioni di Jouvet. Non posso immaginare che il grande Giorgio non lo conosca: anzi, già vedo il libro appuntato frase per frase, virgola per virgola, di vari concetti in esso contenuti ho sentito l’eco nelle sue parole, l’idea di regolare la recitazione come una musica.
Sua madre, del resto, era una violinista, e il sogno della sua infanzia fu quello di diventare direttore d’orchestra. Sogno realizzato, anche se l’orchestra non è consueta: è quella del Teatro d’Europa, un complesso di muri, voci, anime, idiomi, dialetti, orologi che scandiscono il tempo […], con una partitura variabile ma terribilmente ferma su di un punto: crescere un teatro libero dalla menzogna, dalla teatralità.

Curzia Ferrari, “Giornale di Brescia”, 13 luglio 1986

Un’apoteosi del teatro come passione esistenziale

Milano, sogno di una notte di mezza estate: ovvero, inaugurazione del Teatro Studio, ex Teatro Fossati, primo “spazio” di quella che entro un paio d’anni sarà la nuova sede del Piccolo. Bella e lucente, la sala, cilindro magico dove tutto è palcoscenico abbracciato dal ferro di cavallo delle gradinate e delle balconate, sembrava all’inizio un “parterre de rois” […].
Due ore più tardi, invece, al termine della sacra funzione, di “rois” ce n’era uno solo, e questo davvero. Ma che dico re: sua Altezza Imperiale Giorgio Strehler. E piccola, trionfante, accanto a lui, la regina, Giulia Lazzarini: sotto una pioggia di fiori e di coriandoli, travolti dagli abbracci e dagli applausi. Come sante reliquie. Nello spettacolo, che spettacolo non era, ma rievocazione di sette giornate di prove, avevano detto lui le parole di Louis Jouvet, lei le parole di un’allieva di Jouvet, Claudia, alla quale il Maestro insegnò, nel corso di tante lezioni tra il febbraio e il settembre del 1940, al Conservatoire di Parigi, come interpretare la parte di Donna Elvira nel Don Giovanni di Molière […].
Lezioni? Nobile pretesto, semmai, nel quale Strehler, non volendo, né poteva, replicare Jouvet, ha tenuto lui, dentro e fuori dal personaggio di se stesso, una sua lezione di, anzi sul, teatro: gran sortilegio della finzione, paradosso della menzogna che diventa verità attraverso la ribalta, incantamento che fa del cuore e della mente degli uomini una selva di buoni sentimenti e di pace. […]
Più che uno spettacolo, dicevamo, un’apoteosi del teatro come passione esistenziale, una messa solenne senza esclusione di colpi sulla grancassa della retorica, ma per fortuna senza nemmeno il rifiuto, da parte di Strehler, di un velo sottilissimo di ironia; e con il contributo, da parte di Giulia Lazzarini, di una interpretazione virtuosisticamente naturalistica. Sette i giovani attori e attrici attorno a lei, sette le lezioni di Jouvet rivissute, sette le recite che Strehler ha definito “prove generali”: dopo di che, fine del sogno di una notte di mezza estate. Ma la favola del teatro continua.

Carlo Maria Pensa, “Oggi”, 16 luglio 1986

Strehler dietro alla maschera di Jouvet

Poiché particolari, infelici circostanze hanno voluto che il Cinquantenario del Piccolo fosse più celebrazioni di memorie che progettazione futura, era inevitabile e giusto che l’omaggio a Jouvet figurasse in calendario con gli stessi interpreti, Strehler e Lazzarini applauditi dieci anni orsono. Ma ecco: la ripresa si è trasformata in evento, la lezione di Jouvet che opponeva il teatro alla guerra è diventata la voce delle proteste di Strehler contro “altri mostri” oggi in agguato, il razzismo, l’intolleranza, l’egoismo, la violenza.
Strehler non si è limitato a “essere Jouvet” come attore, a ripercorrere la fiammeggiante materia didattica di quelle lezioni nell’Europa in guerra («Jouvet era Jouvet, altri erano i suoi tempi: sono diverso da lui per temperamento, carattere, esperienze») e ha fatto uso del personaggio “astratto” del Maestro per disegnare, con puntigliosa sincerità, un proprio “autoritratto estremo”: sorpreso, disincantato, offeso dal “disordine costituito” di un paese e di un teatro nei quali ormai fa fatica a riconoscersi.
Nella sua interpretazione-confessione c’è stata la malinconia di un distacco, che il pubblico ha avvertito e applausi venuti dal cuore hanno sancito. In questa ripresa il testo delle lezioni di Jouvet (pubblicato da Gallimard) è stato traccia, spunto, pretesto, per un riepilogo – all’insegna di una concezione di alta retorica del mestiere – che ha abbracciato tutto, più di mezzo secolo fra le ombre della scena.
Strehler si è messo la maschera di Jouvet per essere se stesso: lo Strehler appassionato, sciamanico, inesauribile, inflessibile fino alla durezza. Ha aggiunto molto al testo, in un crescendo dal disincanto all’ardore, chiamando Giulia la Claudia del Conservatoire. E Giulia Lazzarini ha fatto ricorso alle raffinatezze della sua arte – più sospiri e sussurri e trasalimenti che grida – per disegnare la fatica dell’allieva spinta ai vertici della purezza interpretativa.

Ugo Ronfani, “Il Giorno”, 21 giugno 1997

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